l’insetticida

La consolazione generale che le cose potrebbero andare anche peggio,
diventa un verdetto di condanna. Nel regno che sta' tra la vita e la
morte, dove non e' nemmeno piu' possibile soffrire, la differenza
tra segatura e sabbia diventa una differenza universale: la segatura,
misero sottoprodotto del mondo delle cose, viene a mancare, e il fatto
di non poterne piu' disporre inasprisce la condanna di morte a vita.

L'insetticida, che sin dall'inizio tende implicitamente al campo di
sterminio, diventa il prodotto finale del dominio dell'uomo sulla
natura, dominio che liquida se stesso. L'unico contenuto della vita e'
ancora che non esista nulla di vivente. Tutto cio' che e' va' livellato
a una vita che e' morte, al dominio astratto.
Il puro predominio della natura diventa obbligo di sterminio.

1.

Nel corso di tutta la storia il dominio sugli uomini e il dominio sulla
natura sono sempre stati mescolati fra loro in modo fatale, ed e'
estremamente difficile, se non impossibile, separare l' uno dall'
altro.(…)

Questo momento del dominio della natura e del dominio di se' e'
collegato nel modo piu' profondo e necessario col principio dell'
autoconservazione, del pensiero che si mantiene identico e autonomo,
che e' un motivo caratteristico della coscienza borghese. Cosi' Spinoza
ha formulato esplicitamente il principio che tutte le cose vogliono
conservare se stesse, e in questo modo ha forse espresso l' unione dei
due motivi nel modo piu' completo e grandioso.(…) 

Il lavoro non e' la fonte di ogni ricchezza. La natura e' la fonte dei
valori d'uso (e in questi consiste la ricchezza effettiva!) altrettanto
quanto il lavoro che, a sua volta, e' soltanto la manifestazione di una
forza naturale. La forza lavoro umana.

L'operaio non puo' fare nulla senza il mondo esterno sensibile, senza
la natura che e' il materiale su cui si realizza il suo lavoro. Dal
fatto che il lavoro ha nella natura la sua condizione deriva che
l'uomo, il quale non ha altra proprieta' all'infuori della sua
forza-lavoro, deve esser, in tutte le condizioni di societa' e
civilta', schiavo degli altri uomini che si sono resi proprietari
 delle condizioni materiali del lavoro.

Il processo lavorativo, nei suoi movimenti semplici e astratti, e'
attivita' finalistica per la produzione di valori d'uso, appropriazione
degli elementi naturali per i bisogni umani, condizione generale del
ricambio organico fra uomo e natura, condizione naturale eterna della
vita umana; quindi e' indipendente  da ogni forma di tale vita e,
anzi e' comune a tutte  le forme di societa' della vita umana. Qui,
come dal sapore del grano non si  sente chi l'ha coltivato, cosi'
non si vede da questo processo sotto quali condizioni esso  si
svolga, se sotto la forza brutale del sorvegliante di schiavi o sotto
l'occhio inquieto del capitalista; non si vede se lo compie Cincinnato
arando i suoi pochi jugeri o il selvaggio che abbatte una bestia con un
sasso.

Una cosa e' evidente pero', la natura non produce da una parte
possessori di denaro o merci e dall'altra puri e semplici possessori
della propria forza-lavorativa. Questo rapporto non e' un rapporto
risultante dalla storia naturale e neppure un rapporto sociale che sia
comune a tutti i periodi della storia. Esso e' il risultato di uno
svolgimento storico, il prodotto di molti rivolgimenti economici, del
tramonto di una serie di formazioni piu' antiche della produzione
sociale.

Il lavoro e', in primo luogo, un processo che si svolge fra l'uomo e la
natura, nel quale l'uomo per mezzo della propria azione, media, regola
controlla il ricambio organico fra se stesso e la natura: contrappone
se stesso, quale una fra le potenze della natura alla materialita'
della natura. Operando sulla natura fuori di se' e cambiandola, l'uomo
cambia allo stesso tempo la sua natura e sviluppa le facolta' in esso
assopite e assoggetta il giuoco delle loro forze al proprio potere.

Trasformando
la natura gli uomini trasformano se stessi.

 L'unita' dell'uomo con la natura e' sempre esistita nella
produzione sociale, e in maniera diversa in ciascuna epoca a secondo
del suo grado di sviluppo. Il mondo sensibile che circonda gli uomini
non e' una cosa data immediatamente dall'eternita', bensi' il prodotto
del lavoro in determinate condizioni sociali. L'uomo dunque, ha di
fronte a se' sempre una "natura storica". Ma e' soltanto con il
capitale che la natura diventa un puro oggetto
per l'uomo, un puro oggetto di utilita', e cessa di essere riconosciuta
come forza in se'; e la stessa conoscenza teoretica si presenta
semplicemente come astuzia di subordinarla ai bisogni umani sia come
oggetto di consumo sia come mezzo di produzione.

2.

La relazione dell'uomo con la natura e' data nella prassi sociale, nel
lavoro, nella produzione e nella scienza ad essa applicata. Questo
rapporto dell'uomo con la natura, e dell'uomo con se stesso, nel sistema
capitalistico e' affidato a  un meccanismo astratto, la produzione
di plusvalore come fine in se', ed e' sottratto alla responsabilita' e
al dominio diretto dell'uomo.

La  produzione sociale,  che e' la vita generante la vita, e'
 intesa non nella sua connessione con l'essere dell'uomo, ma soltanto in una
relazione di esteriore utilita'. Nello stato dell'alienazione del
lavoro quanto piu' la scienza, attraverso l'industria e' penetrata
nella vita e l'ha trasformata tanto piu' l'ha disumanizzata
poiche' il comportarsi dell'uomo verso la natura e' condizionato dalla
forma sociale.

L'identita' di uomo e natura emerge nel fatto che il comportarsi
limitato degli uomini verso la natura condiziona il il
comportamento limitato fra uomini e uomini, e il comportamento limitato
fra uomini e uomini condiziona i loro rapporti con la natura.  Nel
capitalismo, il potere sociale, cioe' la forza produttiva moltiplicata
che ha origine  attraverso la cooperazione di diversi individui,
pur mediando il rapporto reale dell'uomo con la natura, e di quest'ultimo con se stesso, e' scritto con un metro che sta' al di fuori dell'umana coscienza. La
cooperazione di questi individui  non e' volontaria ma oggettiva e
non si presenta come il loro potere unificato ma piuttosto come un
potere obiettivo che li sovrasta, che cresce fino a sfuggire al loro
controllo, che contraddice le loro aspettative e annienta i loro
calcoli. La produzione sociale  benche sia il processo di
elaborazione della natura da parte degli uomini e degli uomini da parte
di altri uomini  non e' padroneggiata dagli uomini.

Il movimento che media  lo scambio fra uomo e natura e fra gli
uomini non e' un rapporto umano ma l'astratto rapporto della proprieta'
privata con la proprieta' privata,  un rapporto in cui la
ricchezza materiale e' alienata nel denaro, in un fantasma mentale. Qui
il lavoro non e' libera manifestazione vitale, cioe' godimento della
vita, ma espropriazione della vita.

L'unita' dell'intera societa', del lavoratore complessivo, che si
appropria della natura esiste fuori di  essa ed e' assoggettata a
un potere estraneo, cioe' totalmente assorbita nel capitale.

3.

L'essere umano, nel processo della sua emancipazione, condivide il
destino di tutto il resto del suo mondo. Nel dominio sulla natura e'
incluso il dominio sull'uomo. Ogni soggetto non solo deve cooperare con
altri per soggiogare la natura esterna, umana e non umana, ma per far
questo deve soggiogare la natura dentro di se'. Siccome, nella societa'
capitalistica, l'asservimento della natura, continua senza nessun
motivo, senza una vera giustificazione, la natura non e' veramente
trascesa o riconciliata con le esigenze della realta' sociale, ma
soltanto repressa.

 

Le stesse forze economiche e sociali assumono il carattere di cieche
forze naturali, che l'uomo se vuol sopravvivere deve dominare
adattandosi ad esse e un fattore della civilta' appare la graduale
sostituzione della selezione naturale con l'azione razionale. Come
risultato finale del processo abbiamo da una parte l'io, l'astratto ego
svuotato di ogni sostanza tranne che di questo tentativo di
 trasformare tutto quanto sta' nel cielo e sulla terra in uno
strumento della sua sopravvivenza, e dall'altro una natura anch'essa
svuotata, degradata a pura materia, che deve essere dominata senz'altro
fine fuorche' quello appunto di dominarla.

Il principio del dominio dell'uomo sulla natura e' divenuto l'idolo al
quale si sacrifica tutto. La storia dello sforzo dell'uomo per
soggiogare la natura e' anche la storia del soggiogamento dell'uomo da
parte dell'uomo: nell'evoluzione del concetto dell'io si riflette
questa duplice storia. E' difficile dire con precisione che cosa le
lingue del mondo occidentale abbiano inteso, in qualunque epoca
storica, con il termine ego-un concetto legato a vaghe associazioni.

Come principio dell'io che si sforza di vincere la lotta contro la
natura in generale, contro gli altri uomini in particolare, e contro i
propri impulsi, l'ego appare in rapporto con le funzioni di dominio. Il
principio dell'ego sembra trovare un simbolo nel braccio teso del capo
che dirige i suoi uomini in marcia o condanna il colpevole alla pena
capitale. Spiritualmente esso assomiglia al raggio di luce: penetrando
l'oscurita' desta i fantasmi della fede e del sentimento che amano
nascondersi nelle tenebre. Storicamente esso appartiene in particolare
ad un'eta' di privilegi di casta caratterizzata da una netta frattura
fra lavoro intellettuale e lavoro manuale , tra conquistatori e
conquistati. Predomino' nell'epoca patriarcale mentre certo non gioco'
un ruolo di primo piano nei giorni del matriarcato-per ricordare
Bachofen e Morgan…

Il principio matriarcale governo' la societa' nel suo stato
precivilizzato in cui si viveva in un mondo in cui ogni cosa era
collegata all'altra e parte dell'insieme e in cui l'individualita' come
concetto non esisteva. L'appartenenza  ai processi della natura e
della vita definivano l'essere e l'esistenza. Solo con la fine del
matriarcato l'uomo si separa dall'insieme, il che gli permette di avere
una visione obietiva della natura dentro e fuori di se'. Allora l'ego
comincia a essere un osservatore del se' e finisce per controllarlo e
per dominarlo. L'io conquista il suo potere con l'uso della ragione e
della volonta'. Entrambe queste funzioni sono messe in evidenza nella
storia di Edipo.

Il mito di Edipo e' una storia sull'origine del dominio dell'io e
dell'ordine sociale patriarcale. Tuttavia questa vittoria dell'io
e del patriarcato sull'ordine matriarcale non fu' mai assoluta. Il
risultato fu la creazione di un antitesi di cultura e natura, tra io e
corpo, tra pensiero razionale e sentire intuitivo. Questa opposizione
favori' la crescita della cultura, ma anche

l'accumulazione di un enorme potenziale distruttivo.

Gli esseri umani non sono nati per essere soggetti alla volonta' di un
altro; non sono ancora stati addomesticati del tutto come le bestie da
soma. Ma la societa' esige che siano vincolati a un sistema economico
che limita la loro liberta' e li assoggetta  ad una gerarchia di
potere.

Se vogliamo assoggettare l'animale uomo alla macchina economica,
dobbiamo domarlo come facciamo con gli altri animali che utilizziamo
per il lavoro. Questo puo' avvenire in primo luogo dominando la
sessualita' della persona. Secoli fa' l'uomo imparo' che con la
castrazione, poteva trasformare l'animale selvaggio in una bestia da
soma: ottenne cosi' i suoi buoi per arare. Senza rendersene conto,
adopera la stessa tecnica per la sua prole, solo che lo strumento
effettivo e' la minaccia di castrazione. Questa minaccia riduce
l'intensita' dell'istinto sessuale  e funziona come una
castrazione psicologica: e' allora possibile educare il bambino al
ruolo sociale di lavoratore produttivo. Cio' ha il vantaggio
supplementare di non interferire con la funzione riproduttiva
dell'individuo.

Sarebbe impossibile capire lo sforzo fatto per reprimere il sesso se
questo avvenisse nell'interesse del sesso in quanto tale. Non il sesso,
ma la rottura della volonta' umana e' la ragione della degradazione del
sesso.

Pensiamo, che l'animale sia dominato dagli istinti, ma anche noi stessi siamo vincolati al siatema dal senso di colpa.

Il principio del dominio, fondato in origine sulla forza bruta,
acquisto' con l'andare del tempo un carattere piu' spirituale. La voce
della coscienza prese il posto del padrone nell'emanare ordini. La
storia della civilta' occidentale potrebbe essere scritta nei termini
dello sviluppo dell'ego come il subalterno che sublima, cioe'
interiorizza, gli ordini del padrone che lo ha preceduto
nell'autodisciplina. Da questo punto di vista il capo e l'elite
potrebbero essere presentati come i fattori che hanno portato coerenza
e connessione logica nelle operazioni della vita quotidiana, nel
processo di produzione per quanto primitivo, regolarita' e addirittura
uniformita'. L'ego presente in ogni soggetto divenne l'incarnazione del
capo e istitui' un nesso razionale fra le multiformi esperienze di
persone diverse. Come il capo raggruppa i suoi uomini, li divide in
truppe a piedi e truppe a cavallo, come il capo pianifica il futuro,
cosi' l'ego classifica le esperienze per categorie e specie e pianifica
la vita dell'individuo.

4.

In nessun momento il concetto dell'ego si e' liberato dal suo vizio
d'origine, dal peccato originario di essere il prodotto e l'espressione
di un sistema di dominio sociale. Suo primo compito e' quello di
dominare le passioni, cioe' la natura nella misura in cui si fa'
sentire in noi. Esso domina la natura: Descriverne gli scopi come
diversi da quelli della propria indefinita sopravvivenza
significherebbe contaminarne la purezza del concetto.

Tutto l'universo diventa strumento dell'ego, benche' questo non abbia
sostanza ne', significato fuorche' nella sua inarrestabile attivita'.

La natura e' concepita oggi piu' che mai come semplice strumento
dell'uomo; e' l'oggetto di uno sfruttamento totale cui la ragione non
assegna nessun scopo e che quindi non conosce limiti. La sete di potere
dell'uomo e' insaziabile. Il dominio della razza umana sulla terra non
trova paralleli in quelle epoche della storia naturale in cui altre
specie animali rappresentavano le piu' alte forme di vita: gli appetiti
di quelle razze animali erano infatti limitati dalle necessita' della
loro esistenza fisica.

 
In realta' il desiderio insaziabile dell'uomo di
estendere il potere in due infiniti, il microcosmo e l'universo, non ha
radici nella sua natura bensi' nella struttura della societa'. Cosi'
l'attacco della razza umana a tutto cio' ch'essa considera diverso da
se' si spiega con i rapporti fra gli uomini piu' che con le innate
qualita' umane. La lotta continua dell'uomo contro l'uomo, regnino la
pace o la guerra, spiega l'insaziabilita' della specie, gli
atteggiamenti pratici che ne sono conseguenza e anche le categorie e i
metodi dell'intelligenza scientifica in cui la natura e' guardata in
misura sempre maggiore dal punto di vista del suo piu' efficiente
sfruttamento. Questa forma di percezione ha anche determinato il modo
in cui gli esseri umani si vedono l'un l'altro nei loro rapporti
economici e politici.Gli schemi cui obbedisce la visione che l'uomo ha della
natura si riflettono infine sull'immagine dell'uomo nella mente umana.
 
Tuttavia ogni volta che la "natura" e' stata esaltata come principio
supremo e' divenuta l'arma del pensiero contro il pensiero stesso e
contro la civilta', il pensiero manifesta una specie di ipocrisia, e la
sua coscienza si fa inquieta.

5.

Il dominio della natura e' il principio sul quale si e' formato il
concetto del soggetto; esso e' in certo modo l'esperienza che
costituisce il nucleo e la base di quel processo di concettualizzazione
che si conclude con la categoria di un soggetto.

L'uno, e' sempre qualcosa che e' stato estorto, ottenuto con la forza.
Cio' che gli si contrappone e' una pluralita' diffusa, un molteplice
privo di una chiara articolazione. A rigore il pensiero d'identita non
e' nient'altro che un pensiero nell'unita'. In questo senso pensare in
termini di identita' equivale a ridurre questa molteplicita' diffusa,
incalzante e, se volete, pericolosa, a un'unita', appunto a
questo principio sintetico. Questo principio che si mantiene in forza
della propria tendenza all'autoconservazione( al sese conservare, come
dice Spinoza) contro la molteplicita' dispersa e incalzante, che di
contro a cui e' molto difficile trovare dei termini adatti rimane uno,
e' l'identita' soggettiva. Poiche' l'identita' si forma veramente sulla
base della tendenza all'autoconservazione, si puo' dire che lo stesso
soggetto sia il principio d'identita' in forma quanto si voglia latente.

La soggettivita' come un momento che si conserva identico e' il
prototipo di ogni altra identita', e nella realta' esistente non si
trova nessun modello paragonabile con questo.

Il circolo dell'identificazione, che in fondo identifica sempre solo se
stessa, e' stato tracciato dal pensiero, che non tollera nulla
all'esterno: la sua prigionia e' la sua propria opera. Tale
razionalita' totalitaria e quindi particolare fu dettata storicamente
dall'elemento minaccioso della natura. E' il suo limite. Il pensiero
identificante, il rendere uguale ogni diseguale, perpetua nel timore la
precarieta' naturale. Una ragione irriflessa viene accecata fino alla
follia di fronte ad ogni cosa che si sottrae al suo dominio. Eppure
l'illusione di possedere immediatamente il molteplice, si
capovolgerebbe in mitologia come regressione mimetica, nell'orrore
diffuso, come al polo opposto il pensiero d'unita', imitazione di una
cieca natura tramite la sua repressione tende a un dominio mitico.

La sovranita' che domina la natura e la sua forma sociale, il dominio
sugli uomini, conserva la fioca coscienza della liberta' nel
ricordo dell'impulso arcaico, non ancora guidato da alcun solido io.
La' dove fallisce il suo dominio sulla natura interna, in stati
patologici come le nevrosi, l'io scopre di derivare il suo modello di
liberta' dal dominio dapprima sugli uomini e le cose e poi su tutto il
suo contenuto concreto di cui dispone. M e' soltanto in quanto
uno agisce come io, non in modo meramente reattivo, che puo' comunque dire
di essere libero mentre la liberta' soggettiva come schizofrenia
 e' un elemento distruttivo, che incorpora nel sortilegio della
natura allora veramente gli uomini. D'altra parte nell'epoca della
repressione sociale universale soltanto nei tratti dell'individuo
violato o sbriciolato vive l'immagine della liberta' contro la societa'
eppure senza l'unita' e la costrizione della ragione non si sarebbe mai
nemmeno pensato qualcosa di simile alla liberta'.

La disperazione per il fatto che la prassi che ci vorrebbe e' deforme,
concede in modo paradossale la pausa per pensare; non utilizzarla
sarebbe un delitto pratico. L'utopia sarebbe la non-identita' senza il
sacrificio del soggetto. Il soggetto sarebbe liberato soltanto in
quanto conciliato con il non-io e quindi anche oltre la liberta', nella
misura in cui essa e' alleata della sua controparte, la repressione.
Oggi la liberta' esiste soltanto nella sovrastruttura alquanto pallida;
il suo fallimento persistente devia la nostalgia verso l'illiberta'.

Oscuro e' l'orizzonte di uno stato di liberta', in cui non si avrebbe
piu' bisogno di repressione e morale, poiche' l'impulso non dovrebbe
piu' esprimersi in modo distruttivo.

6.

Cio' che non e' per parte sua soggetto ha per principio un carattere di
non-chiusura, o di apertura, se volete usare un'espressione positiva,
che si sottrae apunto alla riduzione ad unita'. Solo il soggetto, che
in quanto pensiero crede di essere sicuro di se stesso e della propria
identita', puo' raccogliersi in se', unirsi in se', e quindi in forza
del concetto, in certo modo con violenza, conferisce questo carattere
chiuso all'aperto con cui aha a che fare.

Quello che ci capita e' percio' privo di questa unita', e quindi non
possiamo attribuirgli un'identita' nel senso piu' rigoroso, a meno di
risolverlo nel soggetto, nel senso di attribuirgli interamente e senza
residui le determinazioni soggettive.

 
Il non-io ha sempre la
possibilita' di non risolversi nel suo concetto, e puo' risolversi nel
suo concetto solo se e' determinato a sua volta come Io esplicitamente
o implicitamente. Solo cio' che si risolve nel soggetto in certo modo
senza residui, puo' essere identico. Risulta che nel momento in cui il
pensiero riconosce qualcosa che non e' gia' esso stesso o che esso non
contiene in se' perde anche la sua capacita' di identificazione
assoluta.

Il momento del dominio della natura e del dominio di se' e' collegato
nel modo piu' profondo con il primato dell'autoconservazione, del
pensiero che si mantiene identico e autonomo, che e' il motivo
caratteristico della coscienza borghese. La ragione e' altro dalla
natura e allo stesso tempo un suo momento. Essa e' parte della natura
come forza psichica deviata ai fini dell'autoconservazione; ma una
volta scissa e contrapposta alla natura, ne diventa anche altro.

Quanto piu' sfrenatamente la ragione si fa assolutamente contrapposta
alla natura e la dimentica in se stessa, tanto piu' regredisce a
natura, come autoconservazione rinselvatichita.

L'inconscio, nel giusto contraddice incondizionatamente il principio
dell'autoconservazione prigioniero di se' e le nevrosi diventano le
colonne della societa'. Gli istinti, che spingono oltre la falsa
situazione, si riaccumulano tendenzialmente nel narcisismo, che si
soddisfa nello stato falso.Questo e' un cardine del meccanismo del
male: debolezza che magari si crede una forza.

7.

Il tutto funziona solo tramite il principio dell'autoconservazione
individuale, con tutta la sua limitatezza. Esso costringe ogni singolo
a guardare solo se stesso, ostacola la sua comprensione
dell'oggettivita', e allora veramente comincia a fare del male. La
tendenza in tal senso e' universale, e' consona con il processo
economico . Anche dove s'illudono di essere sottratti al primato
dell'economia, fin dentro la loro psicologia, gli individui reagiscono
sotto la coazione dell'universale.  

Negli individui stessi si esprime il fatto che il tutto, loro
compresi, si mantiene solo tramite l'antagonismo. Infinite volte, anche
se coscienti e capaci della critica all'universalita', vengono
costretti dai motivi irresistibili dell'autoconservazione ad azioni ed
atteggiamenti, che aiutano ciecamente l'universalita' ad affermarsi,
mentre per la loro coscienza gli si oppongono.

Soltanto perche' essi devono far proprio cio' che gli e' estraneo per
sopravvivere, nasce l'apparenza della conciliazione. Cio' che brilla,
come fosse al di sopra degli antagonismi, e' legato all'irretimento
universale.

 
L'universale fa' in modo che il particolare che gli e'
sottomesso non gli sia migliore. Questo e' il nocciolo di ogni
identita' prodotta fino ad oggi.

Guardare negli occhi il predominio dell'universale offende
psicologicamente fino all'intollerabile il narcisimo di ogni singolo e
quello di una societa' organizzata democraticamente. Cogliere come non
esistente, come illusione la seita', spingerebbe facilmente la
disperazione oggettiva a diventare soggettiva e toglierebbe loro la
credenza innestatagli dalla societa' individualistica, che essi, cioe' i
singoli, sono il sostanziale.

Un vero primato del particolare sarebbe ottenibile solo modificando
l'universale. Ma installarlo senz'altro come esistente e' diventato
funzione dell'universale.

Il dominio della natura, progrediente nel dominio sugli uomini ed
infine sulla natura interiore salda insieme i momenti e fasi
discontinue, caoticamente disgregate della storia.

 
Se non c'e una
storia dell'universale che conduca dal selvaggio all'umanita', ma
certo una che porta dalla fionda alla megabomba. Essa termina nella
minaccia totale dell'umanita' organizzata contro gli uomini
organizzati, la quintessenza della discontinuita'.
 

La storia e' l'unita' di continuita' e discontinuita'. La societa' si
mantiene in vita non malgrado il suo antagonismo, ma tramite esso:
l'interesse al profitto, e quindi il rapporto di classe sono
oggettivamente il motore del processo produttivo, da cui dipende la
vita di tutti e il cui primato ha il suo punto di fuga nella morte di
tutti. Cio' implica anche l'elemento conciliante dell'inconciliabile:
piche' esso soltanto permette agli uomini di vivere; senza di esso non
ci sarebbe nemmeno la possibilita' di una vita trasformata. Cio' che
quella possibilita' creo storicamente, puo' anche distruggere.

L'universale, che comprime il particolare come fosse uno strumento di
tortura, finche' si frantumi, lavora contro se stesso, perche' ha la
propria sostanza nella vita del particolare; senza di esso decade a
forma astratta e cancellabile. Franz Neuman lo ha diagnosticato per la
sfera istituzionale in <Behemoth>: la disgregazione in apparati
di potere e reciprocamente combattentesi e' il segreto dello stato
totale fascista. Ad esso corrisponde l'antropologia, il chemismo degli
uomini. Una volta consegnati senza resistenza al disordine collettivo,
perdono l'identita'. Non e' del tutto privo di probabilita' che cosi'
il sortilegio si spezzi. Cio' che una volta voleva negare la struttura
totale della societa' falsamente sotto il nome di pluralismo, riceve la
sua verita' da tale disintegrazione che si annuncia: insieme
dall'orrore e da una realta' in cui il sortilegio esplode. Il malessere
della civilta' di Freud ha un contenut di cui ben difficilmente egli
doveva essere consapevole; non solo nella psiche dei socializzati si
accunula l'impulso aggressivo fino all'esplosione apertamente
aggressiva, bensi' la socializzazione cova oggettivamente il suo
contrario, senza che finora si possa dire se sia la liberazione o la
catastrofe. La societa' emancipata dalla natura e' essa stessa-cio' che
non si apetterebbe-natura.

8.

Il processo di dominio espunge indigenti frammenti della natura assoggettata.

 

Sortilegio ed ideologia sono la stessa cosa. Il sese conservare
spinoziano, l'autoconservazione, e' veramente legge naturale di ogni
vivente. Essa ha come contenuto la tautologia dell'identita: deve
essere comunque cio' che e' gia'.

Poiche' l'autoconservazione dall'epoca degli eoni fino ad oggi e''
stata difficile e precaria, le pulsioni dell'io, il suo strumento,
hanno un potere quasi irresistibile, anche se con la tecnica
l'autoconservazione e' diventata potenzialmente facile.

Questo impulso dell'io ad accumulare il potere continua oltre i limiti
dei vantaggi per l'autoconservazione.
Si radica nella
personalita' e non smette piu' di funzionare.

In generale, l'individuo non e' solo il sostrato biologico, ma-nello
stesso tempo-la forma riflessa del processo sociale, e la sua coscienza
di se stesso come di un essente-in-se' e' l'apparenza di cui ha bisogno
per intensificare la propria produttivita', mentre di fatto
l'individuato, nell'economia moderna funge da semplice agente della
legge del valore. Di qui occorre dedurre, non solo la sua funzione
sociale, ma l'intima struttura dell'individuo in se'.

 
Decisiva, nella fase attuale, e' la categoria della composizione
organica del capitale. Con questa espressione la teoria
dell'accumulazione intendeva <l'aumento della massa dei mezzi di
produzione a paragone della massa della forza lavoro che li anima>.
Quando l'integrazione della societa' determina i soggetti, sempre piu'
esclusivamente, come momenti parziali nel contesto della produzione
materiale, la <modificazione nella composizione tecnica del
capitale> si continua negli individui, afferrati e, in realta',
direttamente costituiti dalle esigenze tecnologiche del processo di
produzione. Cresce, cosi', la composizione organica dell'uomo.

Il lato per cui i soggetti sono determinati in se stessi come strumenti
di produzione e non come fini viventi, cresce come la parte delle
macchine rispetto al capitale variabile. La tesi corrente della
<meccanizzazione> dell'uomo e' ingannevole, in quanto concepisce
l'uomo come un ente statico, sottoposto a certe deformazioni ad opera
di un <influsso> esterno, e attraverso l'adattamento a condizioni
di produzione esterne al suo essere. In realta' non c'e nessun sostrato
di queste <deformazioni>, non c'e interiorita' sostanziale,
su cui opererebbero-dall'esterno-determinati meccanismi sociali;
la deformazione e' una malattia che colpisce gli uomini, ma e' la
malattia della societa', che produce i suoi figli come la proiezione
biologistica vuole che li produca la natura: e cioe' <determinandoli
ereditariamente>.

E' solo in quanto il processo che comincia con la trasformazione della
forza-lavoro in merce investe e compenetra gli uomini in blocco e
individualmente, e oggettiva e rende commensurabili apriori tutti i
loro impulsi, come altrettante forme o varieta' del rapporto di
scambio, e' solo sotto queste condizioni che la vita puo' riprodursi
nel quadro degli attuali rapporti di produzione. La sua organizzazione
totale richiede un agencement di cadaveri. La volonta' di vivere si
vede rimandata alla negazione della volonta' di vivere,
L'autoconservazione annulla ogni vita nella soggettivita'.

Anche cio' che nell'uomo differisce dalla tecnica, e' incorporato come
una specie di lubrificazione della tecnica. Anche la
differenziazione psicologica, che, del resto, ha gia' avuto origine
dalla divisione del lavoro e dalla suddivisione dell'uomo  nei
settori del processo produttivo e della liberta', ritorna, alla fine,
al servizio della produzione. Il <virtuoso> "specializzato",
scriveva, trent'anni fa, un filosofo dialettico, <colui che vende le
sue capacita' intellettuali oggettivate e trasformate in cose…cade in
un atteggiamento contemplativo di fronte al funzionamento delle proprie
capacita', oggettivate e cosificate.

Da tempo, non si tratta piu' soltanto dello smercio del vivo. Sotto
l'apriori della smerciabilita', il vivente in quanto vivente si e'
trasformato in cosa, in equipaggiamento. L'io assume consapevolmente al
proprio servizio,come propria attrezzatura, l'uomo intero. In questa
organizzazione totale, l'io come direttore della produzione cede tanto
di se' all'io come strumento della produzione, da ridursi ad un
astratto punto di riferimento: l'autoconservazione perde il suo se'….
Il principio di autoconservazione come sovranita' assoluta del
soggetto, che subordina a se' le cose, gli altri uomini e se stesso, si
 capovolge nella perdita della soggettivita', nell'estraniazione
totale.

Le qualita', dall'affabilita' genuina all'attacco isterico,
diventano controllabili e utilizzabili, fino ad esaurirsi senza residui
nel loro impiego oculato e conforme. Mobilitate dall'io, subiscono una
profonda trasformazione. Sopravvivono come gusci secchi  e vuoti
di emozioni, materiale trasportabile a piacere, privo di moto proprio.
Non fanno piu' parte del soggetto, ma il soggetto si rivolge ad esse
come al proprio oggetto interno. Nella loro sconfinata docilita' all'io
si sono estraniate ad esso; totalmente passive, cessano di alimentarlo.
Questa e' la patogenesi sociale della schizofrenia.
La separazione delle qualita' dal fondo istintivo come dal se' che le
comanda, dove prima le teneva semplicemente insieme, fa' che l'uomo
paghi la sua crescente organizzazione interna con una crescente
disintegrazione.
Questa disintegrazione e' il segreto dell'integrazione, della felicita' di essere uniti nell'assenza di felicita'.
La divisione del lavoro condotta a termine nell'individuo, la sua
radicale oggettivazione, si risolve nella sua lacerazione morbosa. Di
qui il carattere psicotico, la condizione antropologica di tutti i
movimenti totalitari di massa.

La dissoluzione delle razionalizzazioni diventa -a sua
volta-razionalizzazione. Anziche' fornire il lavoro della riflessione
su di se', gli addotrinati acquistano la capacita' di definire tutti i conflitti
d'impulsi sotto concetti come complesso d'inferiorita', vincolo
materno, estroverso ed introverso, da cui quelli, in fondo, non si
lasciano raggiungere affatto.
Lo spavento davanti all'abisso dell'io e' eliminato dalla coscienza che non si tratta di gran che di diverso dall'artrite….
Cosi' i conflitti  perdono quel che avrebbero di minaccioso.
Vengono accettati; non pero' guariti, ma semplicemente inquadrati-come
pezzi o componenti indispensabili-nella superficie della vita
regolamentata.

Il narcisismo, a cui, con la decomposizione dell'io, e' sottratto il
suo oggetto libidinoso, e' sostituito dal piacere masochistico di non
esserlo piu'; e la generazione che sorge veglia gelosamente, come su
pochi suoi altri beni, sulla propria mancanza di io, come un possesso
comune e duraturo. Il regno della reificazione e della regolamentazione
viene cosi' esteso fino al suo radicale opposto, a cio' che passa per
abnorme e caotico. L'incommensurabile, proprio in quanto tale, viene
reso commensurabile, e ll'individuo non e' piu' capace di un impulso
che non sia subito in grado di designare come esemplare di questa o
quella costellazione pubblicamente riconosciuta.

9.
La natura sopravvive solo nell'irrazionalita' della cultura stessa, nel
groviglio di mura e di vicoli a cui appartengono anche le torri e i
bastioni dei giardini zoologici disseminati nella citta'. La
razionalizzazione della cultura, che apre le finestre alla natura,
assorbe definitivamente quest'ultima, ed elimina con la differenza,
anche il principio della cultura, la possibilita' della conciliazione.

Non e' piu' possibile distinguere la fase della completa reificazione
del mondo, che non lascia dietro di se' nulla che non sia opera
dell'uomo, e cioe' la fase della catastrofe permanente, da un processo
catastrofico prodotto aggiuntivamente e appositamente dall'uomo, in cui
la natura e' stata cancellata e dopo il quale non cresce piu' niente.
La condizione e' esattamente la condizione in cui <non c'e piu' natura> :
la fine del mondo e' scontata, come se fosse ovvia.

Questa e' la zona dell'equivalenza assoluta-indifferenz-tra interno ed
esterno, natura e cultura; identita di soggetto e oggetto nello
stadio della piena alienazione. La pura identita' e' l'identita'
dell'individuo annientato.
Non appena il soggetto non e' piu' con certezza identico a se stesso,
non e' piu' un nesso significante in se' concluso, ecco che anche il
confine che lo separa dall'esterno si dilegua, e le situazioni
dell'interiorita' diventano contemporaneamente situazioni della natura
fisica.

10.
La vergogna che viene quando si ride delle proprie parole diventa un
esistenziale: la vita e' ancora e soltanto il compendio di tutto cio'
di cui ci si dovrebbe vergognare.

La consolazione generale che le cose potrebbero andare anche peggio,
diventa un verdetto di condanna. Nel regno che sta' tra la vita e la
morte, dove non e' nemmeno piu' possibile soffrire, la differenza
tra segatura e sabbia diventa una differenza universale: la segatura,
misero sottoprodotto del mondo delle cose, viene a mancare, e il fatto
di non poterne piu' disporre inasprisce la condanna di morte a vita.

L'insetticida, che sin dall'inizio tende implicitamente al campo di
sterminio, diventa il prodotto finale del dominio dell'uomo sulla
natura, dominio che liquida se stesso. L'unico contenuto della vita e'
ancora che non esista nulla di vivente. Tutto cio' che e' va' livellato
a una vita che e' morte, al dominio astratto.
Il puro predominio della natura diventa obbligo di sterminio.

-liberamente adattati da:
Dialettica negativa
Minima Moralia
Terminologia filosofica vol I-II
Tentativo di capire finale di partita
di T.W.Adorno

Eclisse della ragione
di Max Horkheimer

Critica al programma di ghota
Miseria della filosofia
Manoscritti economico-filosofici
L'ideologia tedesca
Grundrisse
Il capitale
Appunti su J.S.Mill
di Karl Marx

Essere o avere
di E.Fromm

Paura di vivere
di A.Lowen

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