il partito immaginario (tiqqun)

T’ho incontrata a Quarto Oggiaro
davanti al Supermarket saccheggiato…

Questo non e’ un programma. Questo e’ un appello. Vale a dire e’ rivolto a chi lo capisce. Non ci prendiamo la briga di dimostrare, argomentare, convincere. Del resto non vogliamo rappresentare nessuno, meno che mai quei ragazzi arrabiati che hanno fatto bordello il “15 ottobre” ne’ le periferie della poverta’ o la classe media che frana. Non siamo assillati dall’interrogativo: chi sono i veri indignati? Ci atterremo all’evidenza. L’evidenza non è in primo luogo una questione di logica, di raziocinio. È legata al sensibile, ai mondi. Ogni mondo ha le sue evidenze. L’evidenza è ciò che si condivide o che divide.

Ogni comunicazione non e’  presupposta e’ da costruire

Quanto all’ordine nel quale viviamo ognuno sa in che cosa consiste: l’impero l’abbiamo sotto il naso. Che un regime sociale in agonia abbia come sola giustificazione alla sua natura arbitraria la sua assurda determinazione – una determinazione senile – a tirare semplicemente avanti; Che la polizia mondiale o nazionale abbia ricevuto carta bianca per sbarazzarsi di tutti quelli che non rigano dritto; Che ovunque, nella guerra permanente in cui si è lanciata, la civiltà, ferita al cuore, si imbatta soltanto nei propri limiti; Che questa fuga in avanti, ormai quasi centenaria, non produca altro che una serie sempre più frequente di disastri; Che nell’insieme gli uomini si adattino a questo ordine di cose con menzogna, cinismo, abbrutimento o farmaci; Nessuno può pretendere di ignorarlo. E lo sport consistente nel descrivere senza fine, con vari gradi di compiacenza, il disastro presente è soltanto un modo diverso di dire: “Le cose stanno così”, la palma  dell’infamia spettando ai giornalisti, a tutti quelli che fanno finta di riscoprire ogni mattina le porcherie di cui si erano occupati il giorno prima.

Tra gli altri, qui ci rivolgiamo ai «compagni», a coloro che sappiamo che prendono il nostro stesso partito. Siamo stanchi della confortevole arretratezza teorica dell’estrema sinistra. Siamo stanchi di sentire da decenni gli stessi falsi dibattiti del sotto-neo-marxismo retorico: spontaneità o organizzazione, comunismo o anarchia, comunità umana o individualità ribelle. Ci sono ancora dei bordighisti, dei maoisti e dei consigliaristi, degli operaisti. Senza citare i periodici revival trotzkisti e il folklore situazionista…, e dei fan della restaurazione della scena paranoica della politica, con tutta la sua attrattiva di aggressività, volontarismo e rimozione, che ad ogni momento schiaccia e respinge la realta’, l’esistente, la rivolta che nasce dalla trasformazione del quotidiano e dalla rottura dei meccanismi di costrizione.

1.

Una gloriosa messa in scena di corpi senza mondo

A memoria d’uomo non c’è stata altra attualità che quella della guerra civile mondiale. Siamo stati allevati come sopravvissuti, come macchine per sopravvivere. Ci SI è formati all’idea che la vita consistesse nel camminare, nell’andare avanti fino a crollare in mezzo ad altri corpi che si muovono nell’identico modo, inciampano e poi crollano a loro volta nell’indifferenza. Al limite l’unica novità dell’epoca attuale è che niente di tutto ciò può più essere nascosto; che in un certo senso tutti lo sanno.  Da qui gli ultimi irrigidimenti del sistema: i suoi meccanismi interni sono a nudo, non servirebbe a nulla cercare di farli sparire con un gioco di prestigio. Molti si stupiscono che nessuna parte della sinistra o dell’estrema sinistra, nessuna delle forze politiche note sia capace di opporsi a un tale stato di cose. “Viviamo comunque in una democrazia, giusto?”. Possono continuare a stupirsi finché ne hanno voglia: niente di quello che viene espresso nel quadro della politica classica potrà mai limitare l’avanzata del deserto, poiché la politica classica fa parte del deserto. Se lo diciamo, non è per raccomandare una qualche politica extra parlamentare come antidoto alla democrazia liberale. La logica che, da trent’anni, guida la politica extra parlamentare e’: non vogliamo prendere il potere, rovesciare lo Stato, eccetera; dunque vogliamo che esso ci riconosca come interlocutori validi.

Ovunque prevalga la concezione classica della politica, prevale la stessa impotenza di fronte al disastro. Il fatto che tale impotenza sia diffusa tra molteplici identità alla fine conciliabili non cambia niente. L’anarchico della FAI, il comunista dei consigli, il trotzkista di Attac, il repubblicano di Repubblica, i tuta bianca…, hanno origine dalla stessa mutilazione. Propagano lo stesso deserto. La politica, per loro, è quello che si stabilisce, si dice, si fa, si decide tra gli uomini. L’assemblea che li raduna tutti, che raduna tutti gli esseri umani a prescindere dai loro mondi respettivi, costituisce la circostanza politica ideale. L’economia, la sfera economica ne scaturisce logicamente: come gestione necessaria e impossibile di tutto quello che è stato lasciato fuori dalla porta dell’assemblea, di tutto quello che, così facendo, è stato assunto come non politico e, di conseguenza, diventa: famiglia, lavoro, vita privata, tempo libero, passioni, cultura, ecc. È così che la definizione classica di politica diffonde il deserto: astraendo gli esseri umani dal loro mondo, staccandoli dalla rete di cose, abitudini, parole, feticci, affetti, luoghi, solidarietà che costituiscono il loro mondo. Il loro mondo sensibile. E che danno loro consistenza. La politica classica è la gloriosa messa in scena di corpi senza mondo. Ma l’assemblea teatrale delle individualità politiche non può mascherare il deserto che essa è. Non esiste società umana separata dall’insieme degli uomini. C’è una  pluralità di mondi. Di mondi che sono tanto più reali in quanto sono condivisi. E che coesistono. La politica, in verità, è piuttosto il gioco tra mondi diversi, l’alleanza tra quelli che sono conciliabili e lo scontro tra quelli inconciliabili.

Perciò affermiamo che il fatto politico centrale degli ultimi trent’anni è passato inosservato. Poiché è avvenuto a un livello di realtà così profondo che per essere  considerato “politico” avrebbe dovuto comportare una rivoluzione dell’idea stessa di politico. Poiché questo livello di realtà è anche quello dove si elabora la divisione tra ciò che si considera reale e il resto. Questo fatto centrale è il trionfo del liberalismo esistenziale. Che oggi ognuno consideri naturale rapportarsi al mondo sulla base dell’idea che ognuno abbia vita propria. Che la vita consista in una serie di scelte, buone o cattive. Che ciascuno possa essere definito da un insieme di qualità, di proprietà la cui proporzione variabile fa di lui un essere unico e insostituibile. Che il  contratto riassuma in modo adeguato i rapporti di impegno tra gli individui, e il rispetto ogni virtù. Che la lingua sia soltanto uno mezzo per intendersi. Che ognuno sia un io tra altri io. Che il mondo sia composto da un lato da cose da gestire e dall’altro da un mare di io atomizzati. Che hanno peraltro la sfortunata tendenza a trasformarsi in cose, a forza di lasciarsi gestire. Beninteso, il cinismo è solo uno dei possibili tratti distintivi dello sconfinato quadro clinico del liberalismo esistenziale, di cui fanno anche parte la depressione, l’apatia, l’immunodeficienza (ogni sistema immunitario è a prima vista collettivo), la slealtà, l’assillo giudiziario, l’insoddisfazione cronica, i legami affettivi negati, l’isolamento, le illusioni del cittadinismo e la perdita di ogni generosità.

CI HANNO VENDUTO questa menzogna: che quello che abbiamo di più caratteristico è ciò che ci distingue dal “comune”. Noi facciamo l’esperienza contraria: la singolarità si manifesta nel modo e nell’intensità con cui un essere fa esistere qualcosa di comune. In fondo, è da lì che partiamo, è lì che ci ritroviamo. Ciò che in noi è più singolare richiama una condivisione. Constatiamo questo: non soltanto quello che abbiamo da condividere non è, in tutta evidenza, compatibile con l’ordine dominante, che anzi si accanisce a inseguire ogni forma di condivisione di cui non decreta le regole. Nelle metropoli, per esempio, caserme, ospedali, prigioni, manicomi e ricoveri per anziani sono le uniche forme ammesse di abitazione collettiva. Lo stato normale è l’isolamento di ognuno nel suo cubicolo privato. Là ritorna invariabilmente, nonostante l’intensità degli incontri che fa altrove e le repulsioni che prova. Abbiamo conosciuto queste condizioni d’esistenza e mai ci ritorneremo. Ci indeboliscono troppo. Ci rendono troppo vulnerabili. Ci fanno deperire. L’isolamento nella “società tradizionale” è la pena più dura alla quale si può condannare un membro della comunità. Questa adesso è la condizione comune. Il resto del disastro segue logicamente. Grazie all’idea gretta e limitata che ognuno si fa di casa propria appare naturale lasciare la strade alla polizia. Non SI sarebbe  potuto rendere il mondo così inabitabile, né pretendere di controllare ogni rapporto sociale – dai mercati ai bar, dagli affari leciti a quelli illeciti – se prima a ciascuno non SI fosse accordato il rifugio nello spazio privato.

Le rigidità che osserviamo in noi stessi derivano dai muri divisori che ognuno si è sentito costretto a erigere per delimitare se stesso e trattenere quello che non deve andare fuori. Quando, per qualche motivo, accade che questi muri si crepano e cadono a pezzi, allora succede qualcosa, che potrebbe essere spaventoso, che magari ha anche a che fare essenzialmente con lo spavento, uno spavento, tuttavia, in grado di liberarci dalla paura. Qualsiasi messa in discussione dei limiti individuali, dei confini segnati dalla civiltà può risultare salvatrice. Una certa messa in pericolo dei corpi accompagna ogni comunità materiale: quando affetti e pensieri non sono più  assegnabili all’uno o all’altro, quando sembra ripristinata una circolazione in cui transitano, indifferentemente agli individui, affetti, idee, impressioni e emozioni. Occorre tuttavia rendersi conto che la comunità come tale non è la soluzione: è la sua continua sparizione ovunque e sempre, a costituire il problema.

Un sistema corporativo-modulare, la metropoli informatizzata appare come un grande ergastolo, neppure troppo mitigato, in cui ciascun insieme sociale, come ciascun individuo, si muove in bracci differenziati rigidamente regolamentati dall’esecutivo. Un ergastolo reso trasparente dalle reti informatiche e telematiche che lo sorvegliano incessantemente. In questo modello lo spazio-tempo sociale metropolitano si ricalca sullo schema di un universo assolutamente prevedibile in equilibrio precario, non inquietante nella sua quiete coatta, lottizzato in comparti modulari all’interno dei quali ogni esecutore opera incapsulato – come un pesce rosso nella sua boccia di cristallo – all’interno di un pre- ciso ruolo collettivo. Universo regolato da dispositivi di retroazione selettivi e adibiti alla neutralizzazione di ogni perturbazione del sistema di programmi deciso dall’esecutivo […] In questo contesto di comunicazione assurdo e insostenibile, in cui ognuno è fatalmente posto nella trappola di una interazione paradossale per “parlare” deve rinunciare a comunicare, per “comunicare” deve rinunciare a parlare!

2.

A forza di arroganza, di operazioni di «polizia internazionale», di comunicati di vittoria permanente, un mondo che si presentava come l’unico possibile, il coronamento della civiltà, ha saputo rendersi violentemente detestabile. Un mondo che credeva di aver fatto il vuoto intorno a sé scopre il male nelle sue viscere, tra i suoi figli. Un mondo che ha celebrato un volgare capodanno come un capodanno millenario inizia a temere per il proprio millennio. Un mondo che si è collocato a lungo sotto il segno della catastrofe realizza controvoglia che il crollo del «blocco socialista» non inaugurava il suo trionfo, ma l’ineluttabilità del suo collasso. Un mondo che si è abbuffato dei motivetti della fine della Storia, del secolo americano e dello scacco del comunismo dovrà pagare la propria leggerezza.

In questa paradossale congiuntura, questo mondo, ovvero in fondo la sua polizia, si ricompone un nemico su misura, folcloristico. Parla di «black bloc», di «terrorismo anarchico internazionale», di una vasta cospirazione contro la civiltà. Essa si crea un fantasma contro il quale imprecare a piacimento e crede così di garantire la propria sicurezza», non è così? Al di là delle elucubrazioni abituali della polizia imperiale, non c’è leggibilità strategica degli eventi in corso. Non c’è leggibilità strategica degli eventi in corso, perché questo presupporrebbe la costituzione di un comune, un minimo comune tra di noi. E questo, un comune, fa paura a tutti, provoca sudori e stupori poiché riporta univocità nel cuore delle nostre vite sospese. In ogni cosa ci siamo abituati ai contratti. Siamo fuggiti da tutto ciò che assomigliava a un patto, perché un patto non si può disdire; si rispetta o si tradisce. Ed è questo, in fondo, che è difficile da capire: è dalla positività di un comune che dipende l’impatto di una negazione; è il nostro modo di dire «io» a determinare il nostro modo di dire «no».

Oggi, dopo trent’anni di contro-rivoluzione, ha inizio il secondo atto della lotta anti-imperiale. Il ritorno della guerra esige una nuova concezione della guerra stessa. Dobbiamo inventare una forma di guerra tale per cui la sconfitta dell’Impero non sia più il doverci uccidere, ma il saperci vivi, sempre più vivi.

L’irrigidimento poliziesco degli stati verificatosi negli ultimi anni dimostra soltanto che le società occidentali hanno perso ogni forza di aggregazione. Non fanno altro  che governare la loro inesorabile decomposizione. Cioè, fondamentalmente, impedire qualsiasi riaggregazione, distruggere tutto ciò che emerge.
Tutto ciò che diserta.
Tutto ciò che si distingue.
Ma non c’è niente da fare. Lo sfacelo interiore di queste società fa apparire crepe sempre più numerose. Il restauro continuo delle apparenze non ottiene nessun risultato: nascono dei mondi, tutti cercano di tirarsi fuori dallo squallore capitalistico. Il più delle volte questi tentativi falliscono o muoiono d’autarchia, per non aver stabilito i contatti, le solidarietà appropriate. E anche per l’incapacità di concepirsi come una delle parti pregnanti della guerra civile mondiale. Ma tutte queste riaggregazioni non sono ancora niente a confronto del desiderio di massa, del desiderio continuamente differito di mollare tutto. Di partire. La nostra strategia è perciò la seguente: creare immediatamente una serie di focolai di diserzione, di poli di secessione, di punti di raduno. Per i disertori. Per quelli che  partono. Una serie di luoghi dove sottrarsi all’impero di una civiltà che va verso il  baratro. Si tratta di dotarsi dei mezzi, di trovare la dimensione in cui risolvere l’insieme dei problemi che, se affrontati da ciascuno separatamente, portano alla  depressione. Come liberarsi di tutte le dipendenze che ci indeboliscono? Come organizzarsi in  modo da non dover più lavorare? Come stabilirsi fuori dalla tossicità della metropoli senza “partire per la campagna”? Come fermare le centrali nucleari? Come non essere costretti, quando un amico impazzisce, a ricorrere alla frantumazione psichiatrica, ai rimedi grossolani della medicina meccanicistica quando ci si ammala? Come vivere insieme senza schiacciarsi reciprocamente? Come reagire alla morte di un compagno? Come mandare in rovina l’impero? Conosciamo le nostre debolezze: siamo nati e cresciuti in società pacificate, come dissolte. Non abbiamo avuto la possibilità di acquisire la consistenza che possono dare momenti di intenso confronto collettivo. Né il sapere ad essi legato. Dobbiamo portare a compimento insieme un’educazione politica. Un’educazione teorica e pratica. Per questo abbiamo bisogno di luoghi. Luoghi per organizzarci, condividere e  sviluppare le tecniche necessarie. Per imparare a maneggiare tutto quello che può dimostrarsi necessario. Per cooperare.

I “cittadini” hanno creduto che bastasse disertare il campo di battaglia per far finire la guerra. Ma così non è stato. La guerra non è cessata e quelli che rifiutavano di accettarlo ora si trovano solo un po’ più disarmati, un po’ più sfigurati degli altri. L’enorme magma di risentimento che oggi ribolle negli intestini del “cittadino” e che sfocia nel desiderio mai appagato di veder le teste cadere, di trovare colpevoli, di ottenere una sorta di pentimento generalizzato per tutta la storia trascorsa, sgorga da lì. Abbiamo bisogno di una ridefinizione della conflittualità storica, non dal punto di vista intellettuale, ma vitale.

La linea del fronte, che non passa più nel bel mezzo della società, passa ormai nel bel mezzo di ciascuno, tra ciò che fa di ognuno un cittadino, i suoi predicati e il resto. Inoltre, in ogni ambiente si scatena la guerra tra la socializzazione imperiale e ciò che fin d’ora le sfugge. Un processo rivoluzionario può avere inizio da qualunque punto del tessuto biopolitico, da qualunque situazione singolare, accentuando fino alla rottura la linea di fuga che l’attraversa. Nella misura in cui intervengono tali processi, tali rotture, c’è un piano di consistenza comune, quello della sovversione anti-imperiale.

Non c’è questione  morale  nel modo in cui ci riforniamo dei mezzi per vivere e combattere, ma un problema tattico dei mezzi di cui ci dotiamo e dell’uso che ne facciamo. “Nella nostra vita”, ha detto una volta un’amica, “la manifestazione del capitalismo  è la tristezza”. Si tratta adesso di instaurare le condizioni materiali per una disposizione condivisa alla gioia.

3.

Nelle condizioni presenti, sotto l’impero, ogni aggregazione etica non può che costituirsi in macchina da guerra. Una macchina da guerra non ha la guerra per oggetto; al contrario: essa non può “fare la guerra che a condizione di creare altro nello stesso tempo, non foss’altro che dei nuovi rapporti sociali non-organici” (Deleuze-Guattari, Mille plateux). A differenza di un’armata, come di ogni organizzazione rivoluzionaria, la macchina da guerra ha, con la guerra, solo un rapporto di supplemento. Essa è capace di manovre offensive, essa è in grado di dar battaglie, di fare un ricorso disinvolto alla violenza, ma essa non ne ha bisogno per condurre un’esistenza intera.

Qui si pone la questione della riappropriazione della violenza, di cui le democrazie biopolitiche moderne ci hanno, insieme con tutte le espressioni intense della vita, così perfettamente spossessati. Cominciamo col finirla con la vecchia concezione di una morte che sopraggiungerebbe al termine, come punto finale della vita. La morte è quotidiana, è questo assottigliamento continuo della nostra presenza sotto l’effetto dell’impossibilità di abbandonarsi alle nostre inclinazioni. Ciascuna delle nostre rughe, ciascuna delle nostre malattie è un gusto al quale non siamo stati fedeli, il prodotto di un tradimento della nostra forma-di-vita. Tale è la morte reale alla quale noi siamo sottomessi, e la di cui causa principale è la nostra mancanza di forza, l’isolamento che ci impedisce di rispondere colpo su colpo al potere, di abbandonarci senza l’assicurazione di doverla poi pagare. Ecco perché i nostri corpi provano il bisogno di aggregarsi in macchine da guerra, poiché solo questo ci rende capaci tanto di vivere che di lottare.

Ciò di cui parliamo, qui, è semplicemente la costituzione di macchine da guerra. Con macchina da guerra, occorre intendere una certa coincidenza del vivere e del lottare, coincidenza che non si dà mai senza esigere allo stesso tempo di essere costruita. Poiché ogni volta che uno di questi termini viene separato dall’altro, la macchina da guerra degenera, deraglia. Se è il momento della vita a diventare unilaterale, la macchina da guerra si trasforma in ghetto. È ciò di cui sono testimonianza le puzzolenti paludi dell’«alternativo», la cui vocazione sembra essere, senza ambiguità, la compra-vendita dello Stesso sotto le spoglie del diverso. In Germania, Italia e Francia, un numero consistente di centri sociali occupati dimostrano senza sforzo come la simulata esteriorità all’Impero possa rappresentare un jolly prezioso nella partita della valorizzazione capitalista. «Il ghetto, l’apologia della “differenza”, il privilegio concesso ai risvolti introspettivi e morali, la tendenza a costituirsi in società separata rinunciando a dare l’assalto alla macchina capitalista, alla “fabbrica sociale”, tutto ciò non è forse un risultato delle “teorie” approssimative e rapsodiche di Valcarenghi e consorti? E non è forse strano che ci accusino di “sottocultura” proprio ora che mettiamo in crisi la merda floreale e non violenta che li ha accompagnati?»,

Inversamente, ipostatizzando il momento della lotta, la macchina da guerra degenera in esercito. Tutte le formazioni militanti, tutte le comunità terribili sono macchine da guerra sopravvissute in questa forma pietrificata alla propria estinzione.
Le macchine da guerra esistono solo in movimento, anche inceppato, anche impercettibile, un movimento che segue la china di crescita della potenza. È questo movimento a garantire che i rapporti di forza che l’attraversano non si fissino mai in rapporti di potere. La nostra guerra può essere vittoriosa, ovvero può andare avanti e accrescere la nostra potenza, a condizione di subordinare sempre lo scontro alla nostra positività. Non colpire mai al di sopra della propria positività, questo è il principio vitale di ogni macchina da guerra. Ogni spazio strappato all’Impero, all’ambiente ostile, deve corrispondere alla nostra capacità di riempirlo, configurarlo, abitarlo. Niente è peggio di una vittoria di cui non si sa che fare. Sostanzialmente, la nostra guerra sarà sorda; schiverà, fuggirà lo scontro diretto, proclamerà poco. Con questo, imporrà la sua temporalità.

Da ciò che precede si dedurrà senza fatica questa evidenza biopolitica: non c’è morte “naturale” alcuna, tutte le morti sono morti violente. Ciò vale esistenzialmente e storicamente. Sotto le democrazie biopolitiche dell’Impero, tutto è stato socializzato; ogni morte rientra in una rete complessa di causalità che fanno di essa una morte sociale, un omicidio; esiste solo l’omicidio, che è ora condannato, ora amnistiato, quasi sempre misconosciuto. A questo punto la questione che si pone non è più quella del fatto dell’omicidio, ma quella del suo come.

4.

Una chiave per comprendere il trionfo dell’impero: la sua capacità  di tenere nell’ombra, di circondare di silenzio il terreno stesso sul quale manovra, il fronte sul quale combatte la sua battaglia decisiva: plasmare il sensibile, foggiare le sensibilità. In questo modo paralizza preventivamente ogni difesa nel momento in  cui opera e rovina l’idea stessa di controffensiva. Risulta vincitore ogni qual volta il militante di sinistra, alla fine di una dura giornata di “lavoro politico” sprofonda in  poltrona di fronte a un film d’azione.

Quando ci vedono rinunciare ai penosi rituali della politica classica ­l’assemblea generale, la riunione, il negoziato, la contestazione, la rivendicazione ­, quando ci sentono parlare di mondo sensibile anziché di lavoro, di documenti, di pensioni o di libertà di movimento, i militanti di sinistra ci guardano con compassione. “Poveretti”, sembrano dire “si sono rassegnati a una politica di minoranza, si sono rinchiusi nel loro ghetto, rinunciando all’allargamento della lotta. Non saranno mai un movimento”. Ma noi siamo convinti dell’esatto contrario: sono loro a rassegnarsi al minoritarismo con il loro linguaggio falsamente oggettivo, il cui unico peso è quello della ripetizione e la retorica. Nessuno si lascia abbindolare dal velato disprezzo col quale parlano dei problemi “della gente” e che consente loro di passare dai disoccupati agli immigrati illegali, dagli scioperanti alle prostitute senza mai mettersi in gioco poiché tale disprezzo è un’evidenza sensibile. Il loro desiderio di “allargarsi” è soltanto un modo di fuggire quelli che sono già là, con i quali, soprattutto, avrebbero paura di vivere. E infine sono loro che, pur essendo restii ad ammettere il significato politico della sensibilità, devono contare sul sentimentalismo nella loro patetica opera di proselitismo. Tutto sommato, preferiamo  partire da nuclei compatti e ristretti che non da una rete ampia e allentata. Abbiamo conosciuto a sufficienza queste vigliaccherie .

Sembra quasi che la sinistra accumuli i motivi di ribellione proprio come un manager accumula gli strumenti di dominio. Vale a dire, con lo stesso godimento.
Il deserto è il progressivo spopolamento del mondo. L’abitudine che abbiamo preso di vivere come se non fossimo al mondo. Il deserto sta nella proletarizzazione continua, massiccia e programmata delle popolazioni, come sta nei sobborghi della California, dove lo squallore consiste proprio nel fatto che nessuno sembra più percepirlo… Si è parlato di  spettacolo, di biopotere, di impero. Ma tutto ciò ha anche accresciuto la confusione in atto. Spettacolo non è una comoda abbreviazione di sistema mass­mediatico. Lo spettacolo sta anche nella crudeltà con cui ogni cosa ci rimanda di continuo alla nostra immagine. Il biopotere non è sinonimo di previdenza, di stato assistenziale o di industria farmaceutica, ma si annida piacevolmente nella cura che ci prendiamo del nostro bel corpo, in una certa estraniazione fisica a se e agli altri.

5.

Ciò che si oppone alla desolazione dominante è solo, in definitiva, un’altra  desolazione, non attrezzata altrettanto bene. Ovunque la stessa stupida idea di felicità. Gli stessi giochi di potere paralizzati dalla paura. La stessa superficialità disarmante. Lo stesso analfabetismo emozionale. Lo stesso deserto. Affermiamo che quest’epoca è un deserto, e che questo deserto si approfondisce senza posa. Non è un artificio poetico, è un’evidenza. Un’evidenza che ne contiene molte altre. Fra altre la rottura con tutto ciò che protesta, denuncia, chiosa malamente il disastro. Chi denuncia si tira fuori.

Inogni luogo in cui i rapporti non sono problematizzati, le antiche forme riaffiorano in tutta la potenza della loro brutalità adiscorsiva: il forte prevale sul debole, l’uomo sulla donna, l’adulto sul bambino e così via…

Tutti conoscono le comunità terribili per avervi soggiornato o perché vi sono ancora. O semplicemente perché esse sono sempre più forti delle altre e per questo ci restiamo sempre in parte – pur essendone usciti. La famiglia, la scuola, il lavoro, la prigione sono i volti classici di questa forma contemporanea dell’inferno, ma sono i meno interessanti perché appartengono a una figura trascorsa dell’evoluzione della merce e non cessano di sopravvivere a se stessi, fino al presente. Ci sono comunità terribili, invece, che lottano contro lo stato di cose esistente, che sono migliori e più attraenti di «questo mondo». E allo stesso tempo il loro modo di essere più vicine alla verità – dunque alla gioia – le allontana più di ogni altra cosa dalla libertà. La domanda che, infine, ci si impone è di natura etica prima che politica, poiché le forme classiche del politico sono fruste e le sue categorie ci vanno strette come i nostri abiti d’infanzia. La questione è sapere se preferiamo l’eventualità di un pericolo ignoto alla certezza del dolore presente. Ovvero, se vogliamo continuare a vivere e a parlare in accordo (dissidente certo, ma pur sempre in accordo) con quanto fatto sinora – e dunque con le comunità terribili – o se vogliamo interrogare quella particella del nostro desiderio che la cultura non ha ancora infestato col suo opprimente pantano, cercare – in
nome di una felicità inedita – un cammino diverso.

Non siamo pronti a scommettere che là dove cresce il deserto cresce anche una possibilità di salvezza. Nulla può accadere che non cominci con la secessione da tutto quello che fa crescere questo deserto. Sappiamo che costruire una potenza di una certa ampiezza richiederà tempo. Ci sono un sacco di cose che non sappiamo più fare. In realtà, come tutti quelli che hanno beneficiato della modernizzazione e dell’educazione dispensata nei paesi sviluppati, non sappiamo quasi far niente. Anche raccogliere piante per cucinare o a scopo medicinale anziché decorativo è ormai considerato nel migliore dei casi un’occupazione antiquata, nel peggiore “originale”. Un’osservazione elementare: ognuno ha accesso a un certo quantitativo di ricchezze e di saperi, resi disponibili dal semplice fatto di vivere nei paesi del vecchio mondo, e può metterli in comune.
Il problema non sta nel chiedersi se vivere con o senza denaro, se rubare o comprare, lavorare oppure no, ma nel come usare il denaro che abbiamo per aumentare la nostra autonomia dalla sfera delle merci. Se preferiamo rubare anziché lavorare, auto­produrre anziché rubare, non è per una preoccupazione di purezza. È perché i flussi di potere che accompagnano i flussi delle merci, la sottomissione soggettiva che condiziona la possibilità di sopravvivere sono diventati esorbitanti. Ci sarebbero molti modi impropri per dire quello che abbiamo in mente: non vogliamo né trasferirci in campagna, né raccogliere saperi antichi per accumularli. Non ci interessa soltanto riappropriarci dei mezzi. Né soltanto dei saperi. Mettendo insieme tutti i saperi e le tecniche, tutta l’inventiva di cui si dà prova nel campo dell’attivismo non otterremo un movimento rivoluzionario. È una questione di temporalità. Si tratta di creare le condizioni perché un’offensiva si possa alimentare senza spegnersi, di porre in essere le solidarietà materiali che ci consentono di tener duro.

Crediamo che non c’è rivoluzione senza la costituzione di una potenza materiale comune. Non ignoriamo l’anacronismo di questa convinzione. Sappiamo che è troppo presto e, al contempo, troppo tardi. Ecco perché abbiamo tempo.
Abbiamo smesso di aspettare.

6.

L’aumento illimitato del controllo risponde disperatamente ai prevedibili cedimenti del sistema. Nulla di quello che viene espresso nella distribuzione nota delle identità politiche è in grado di guidarci al di là del disastro. Perciò cominciamo ad allontanarci da loro. Non contestiamo nulla, non rivendichiamo nulla. Ci costituiamo in forza, in forza materiale, in forza materiale autonoma in seno alla guerra civile mondiale. Questo appello enuncia su quali basi.

Per il momento tuttavia, ciò che colpisce non è l’arroganza dell’impero, ma piuttosto la debolezza del contrattacco. Quasi una colossale paralisi. Una paralisi di massa, che talvolta consente di affermare, quando ancora ci si esprime, che non c’è niente da fare, talaltra di ammettere, messi alle strette, che “c’è tanto da fare” ­il che è la stessa cosa. Poi a margine di questa paralisi, il “bisogna fare qualcosa, qualsiasi cosa” degli attivisti. Seattle, Praga, Genova, la lotta contro gli OGM o il movimento dei disoccupati:  nelle lotte degli ultimi anni abbiamo preso la nostra parte, abbiamo preso partito e non certo a fianco del folklore protestatorio che ha smesso di distrarci. Negli ultimi dieci anni abbiamo ascoltato di nuovo bocche ancora liceali ripetere il noioso monologo del marxismo­leninismo. Abbiamo visto l’anarchismo più puro negare anche quello che non riesce a capire. Abbiamo visto l’economicismo più piatto quello degli amici di Le Monde diplomatique diventare la nuova religione popolare. Ovunque la militanza è tornata a edificare le sue costruzioni traballanti, le sue reti depressive, fino allo sfinimento. Alla polizia, ai sindacati e alle varie burocrazie informali sono bastati pochi anni per avere la meglio sull’effimero movimento “antimondializzazione”. Per quadrettarlo. Per dividerlo in “terreni di lotta” separati, tanto convenienti quanto sterili.

Per noi il punto del capovolgimento, la fine del deserto, l’uscita dal capitale sta nell’intensità del legame che ciascuno riesce a stabilire tra quello che vive e quello che pensa. Contro i sostenitori del liberalismo esistenziale, rifiutiamo di considerare ciò una questione privata, individuale, di carattere. Al contrario, partiamo dalla certezza che questo legame dipende dalle costruzioni di mondi condivisi, dalla messa in comune di mezzi effettivi.

Ogni giorno ognuno è costretto ad ammettere che la preoccupazione del “legame tra vita e pensiero” è evidentemente ingenua, fuori moda, ed è segno, in definitiva, di semplice mancanza di cultura. Riteniamo ciò un sintomo. Questa evidenza, infatti, è proprio un effetto della modernissima ridefinizione liberale della distinzione tra pubblico e privato. Il liberalismo ha stabilito il presupposto che si debba tollerare qualsiasi cosa, che si possa pensare qualsiasi cosa purché non abbia ripercussioni dirette sulla struttura della società, delle sue istituzioni e del potere statale. È ammesso esprimere qualunque idea; se ne è addirittura favorita l’espressione purché si accettino le regole del gioco sociali e statali. In altre parole, la libertà di pensiero del singolo dev’essere totale, come dev’essere, in linea di principio, la sua libertà d’espressione, ma egli non deve evolere le conseguenze del suo pensiero per quanto riguarda la vita collettiva.

Il liberalismo esistenziale è l’etica spontanea adeguata alla social­democrazia considerata come ideale politico. Sarai un cittadino perfetto solo quando sarai capace di rinunciare a un rapporto o a una lotta in modo da mantenere il tuo posto. Non sempre sarà indolore, ma proprio in questo ambito il liberalismo esistenziale è efficiente: esso fornisce anche i rimedi ai malesseri che crea. L’assegno a favore di Amnesty, il caffè equo e solidale, la manifestazione contro l’ultima guerra, vedere l’ultimo film di Michael Moore – sono tanti non­-atti camuffati da gesti salvifici. Tira  avanti come d’abitudine, vale a dire,vai a passeggiare nei luoghi preposti e fai acquisti, come sempre, ma in cima a tutto ciò, in aggiunta, tranquillizza la tua coscienza: compra No Logo, boicotta la Shell, ciò dovrebbe bastare a convincerti che l’azione politica in realtà non richiede molto e che anche tu sei capace di “impegnarti”. Non c’è nulla di nuovo in questo mercato delle indulgenze, ma si incontra difficoltà a dare un taglio alla confusione dominante. La cultura invocatoria dell’altro­mondo­possibile e del commercio equosolidale lascia poco spazio per parlare di etica al di là di quella indicata sull’etichetta. Le sempre più numerose associazioni ambientaliste, umanitarie e “di solidarietà” incanalano in modo opportuno il malessere generale, contribuendo così a perpetuare lo status quo attraverso la valorizzazione personale, il riconoscimento e le relative sovvenzioni “onestamente” ricevute, in breve, attraverso il culto dell’utilità sociale. Soprattutto, non più nemici. Tuttalpiù problemi, abusi o addirittura  catastrofi, pericoli dai quali soltanto i dispositivi del potere possono proteggerci.

L’evidenza del mondo della merce si è inserita ovunque. Questa evidenza è lo strumento più efficace per separare i fini e i mezzi, per segregare “la vita quotidiana” come uno spazio di esistenza che dobbiamo soltanto gestire. La vita quotidiana è ciò cui si presume vogliamo far ritorno, vale a dire all’accettazione di una necessaria e universale neutralizzazione. È la rinuncia sempre maggiore alla possibilità di una gioia senza rinvii. Come ha detto una volta un amico, è la media di tutti i nostri possibili crimini. Sono rare le collettività che possono evitare l’abisso in attesa di inghiottirle, che si rendono conto dello schiacciamento sull’estrema piattezza del reale, la comunità come colmo dell’intensità media, ritorno di lenti sfaldamenti maldestramente riempiti da banali chiacchiere garbate. La neutralizzazione è una caratteristica essenziale della società liberale. I suoi centri, dove si richiede che nessuna emozione trapeli, dove ciascuno è tenuto a contenersi, tutti li conoscono, e soprattutto tutti li sperimentano in quanto tali: le aziende (ma cosa oggi non è azienda?),le discoteche, i centri sportivi, i centri culturali, ecc. La vera domanda è sapere perché questi posti sono così popolari, dal momento che ognuno sa di che cosa si tratta. Perché si dovrebbe preferire, sempre e soprattutto, “che niente accada”; o comunque che non capiti niente che potrebbe provocare scosse troppo forti? Perabitudine? Per disperazione? Per cinismo? Oppure: perché riesci a sentire il piacere di essere da qualche parte mentre non ci sei, di essere là mentre essenzialmente sei da qualche altra parte; perché quello che siamo nel profondo sarebbe preservato al punto di non dover più esistere.
Sono queste domande “etiche” che vanno poste in primo luogo.

7.

Organizzare gli inorganizzabili…

Non manca nulla al trionfo della civiltà.
Non il terrore politico e neppure la miseria affettiva.
Non la sterilità universale.
Il deserto non può più estendersi: è ovunque.
Ma può ancora diventare più profondo.
Di fronte all’evidenza della catastrofe c’è chi si indigna e chi
ne prende atto, chi denuncia e chi si organizza.
Noi siamo dalla parte di chi si organizza.

Per non prendere il potere occorre già averne parecchio…

La Sinistra è periodicamente sconfitta. Il che ci diverte, ma questo non basta. Vogliamo che la sua sconfitta sia definitiva. Senza scampo. Che lo spettro di un’opposizione conciliabile non possa mai più tormentare la mente di quelli che si sanno inadeguati al processo capitalistico. La Sinistra – oggi chiunque lo ammette ma lo ricorderemo ancora dopodomani? ­ è parte integrante dei dispositivi di neutralizzazione propri della società liberale. Più l’implosione sociale è reale, più la Sinistra fa appello alla “società civile”. Più la polizia esercita il suo volere arbitrario con impunità, più la Sinistra pretende di essere pacifista. Più lo stato si libera delle ultime formalità giuridiche, più  essa diventa “cittadinista”. Più pressante è l’urgenza di appropriarci dei mezzi della nostra esistenza, più la sinistra ci esorta ad aspettare, a pretendere la mediazione, se non la protezione, dei nostri padroni. È la sinistra che oggi ci impone, di fronte a governi che si pongono apertamente sul terreno della guerra sociale, di farci sentire da loro, di mettere per esteso le nostre lagnanze, di formulare rivendicazioni, di studiare economia politica. Da Leon Blum a Lula, la Sinistra è sempre stata nient’altro che il partito dell’uomo, del cittadino, della civiltà. Oggi quel programma coincide integralmente con quello controrivoluzionario integrale, quello che consiste nel mantenere vive tutte le illusioni che ci paralizzano. La vocazione della Sinistra è perciò di divulgare un sogno. Un sogno che soltanto l’impero ha i mezzi per realizzare. Essa rappresenta il lato idealistico della modernizzazione imperiale, la valvola indispensabile per tener dietro al ritmo insopportabile del capitalismo. SI è persino scritto, spudoratamente, nelle pubblicazioni del Ministero dei Giovani, dell’Educazione e della Ricerca: “Ormai ognuno sa che senza il concreto aiuto dei cittadini lo stato non avrà né i mezzi né il tempo per portare avanti l’opera che può impedire alla nostra  società di esplodere”. Sconfiggere la Sinistra, vale a dire mantenere continuamente aperto il canale della disaffezione sociale, non solo è necessario, ma oggi è anche possibile.

COSTRUIRE IL PARTITO IMMAGINARIO,
ormai, non vuole più dire costruire l’organizzazione totale, all’interno della quale mettere tra parentesi tutte le differenze etiche in vista della lotta; costruire il Partito ormai significa fissare le forme-di-vita nella loro diversità, intensificare, rendere più complesse le loro relazioni, elaborare tra noi nel modo più sottile possibile la guerra civile. Poiché l’astuzia più temibile dell’Impero è quella di ridurre al grande contrasto – quello della «barbarie», delle «sette», del «terrorismo» o degli «opposti estremismi» – tutto ciò che gli si oppone; la lotta nei suoi confronti passa essenzialmente per il fatto di non consentire confusione tra le fazioni conservatrici del Partito immaginario – miliziani libertari, anarchici di destra, fascisti insurrezionali, difensori della civiltà contadina – e le sue fazioni rivoluzionarie sperimentali. La costruzione del Partito non si pone più, allora, in termini di organizzazione, ma in termini di circolazione. Ciò significa che, se esiste ancora un «problema dell’organizzazione», è quello di organizzare la circolazione all’interno del Partito. Poiché solo l’intensificazione e l’elaborazione degli incontri tra noi possono contribuire al processo di polarizzazione etica, alla costruzione del Partito.

Tutti i corpi che non possono o non vogliono attenuare le loro forma-di-vita devono arrendersi a questa evidenza: essi sono, noi siamo i paria dell’Impero. C’è, ancorato da qualche parte dentro di noi, questo punto di opacità senza ritorno, che è come il segno di Caino, e che riempie i cittadini di terrore, se non di odio. Manicheismo dell’Impero: da un lato, la nuova umanità radiosa, accuratamente riformattata, trasparente a tutti i raggi dell’Impero, idealmente spogliata dell’esperienza, assente a sé fino al cancro. Sono, questi, i cittadini: i cittadini dell’impero. E poi ci siamo noi. Noi non siamo né un soggetto, né un’entità formata, e nemmeno una moltitudine. Noi siamo una massa di mondi, di mondi infra-spettacolari, interstiziali, una massa inconfessabile all’esistenza, intessuti di solidarietà e di dissensi impenetrabili al potere; e poi ci sono anche i dispersi, i poveri, i prigionieri, i ladri, i criminali, i matti, i perversi, i corrotti, gli esaltati, i debordanti, le corporeità ribelli. In breve: tutti coloro che, seguendo la loro linea di fuga, non possono ritrovarsi nel tepore climatizzato del paradiso imperiale. NOI, ossia tutto il piano di consistenza frammentata del Partito Immaginario.

Per quanto ci teniamo in contatto con la nostra propria potenza, non foss’altro che a forza di pensare la nostra esperienza, noi rappresentiamo, in seno alle metropoli dell’Impero, un pericolo. Noi siamo il nemico qualunque. Quello contro il quale sono concatenati tutte le norme e tutti i dispositivi del potere. Inversamente, l’uomo di risentimento, l’intellettuale, l’immunodeficiente, l’umanista, il griffato, il nevrotico, offrono il modello di cittadino dell’Impero. Da loro, si è sicuri che non c’è nulla da temere. Dato il loro stato, essi sono sistemati in condizioni di esistenza di un’artificialità tale che solo l’Impero può assicurarla loro; ogni modificazione brutale di questa significherebbe la loro morte. Proprio costoro sono i collaboratori-nati. Non è soltanto il potere, è la polizia che passa attraverso i loro corpi. La vita mutilata non appare soltanto come una conseguenza dell’avanzata dell’Impero, essa ne è innanzitutto una condizione. L’equazione cittadino = sbirro si prolunga nella più profonda incrinatura dei corpi. Tutto ciò che l’Impero tollera è per noi ugualmente angusto: gli spazi, le parole, gli amori, le teste e i cuori: altrettante briglie. Ovunque andiamo, si formano pressoché spontaneamente, attorno a noi, questi cordoni sanitari da tetano, così riconoscibili negli sguardi e nei gesti. Basta così poco per essere identificati dai cittadini anemizzati dell’Impero come un sospetto, come un dividuo a rischio. Un mercanteggio permanente si gioca per farci rinunciare a questa intimità con noi stessi che ci viene tanto rimproverata. In effetti noi non rimarremo sempre così, in questa posizione straziante di disertore interno, di straniero apolide, di hostis troppo accuratamente mascherato.

Nel corso del divenir-reale del Partito Immaginario, rincontreremo senza dubbio di queste livide sanguisughe: i rivoluzionari di professione. Contro l’evidenza che i soli bei momenti del secolo furono spregiativamente chiamati “guerre civili”, essi finiranno senz’altro col denunciare in noi “la cospirazione della classe dominante per abbattere la rivoluzione con una guerra civile” (Marx, La guerra civile in Francia). Noi non crediamo alla rivoluzione, già di più a delle “rivoluzioni molecolari”, e spudoratamente a delle assunzioni differenziate della guerra civile. In un primo tempo, i rivoluzionari di professione, appena appena raffreddati dai loro ripetuti disastri, ci diffameranno come dilettanti, come traditori della Causa. Vorranno farci credere che l’Impero è il nemico. Obietteremo a Sua Stupidità che l’Impero non è il nemico, ma l’hostis. Che non si tratta di vincerlo, ma di annientarlo. E che, al limite, noi non passeremo al loro Partito, seguendo in ciò i consigli di Clausewitz intorno alla guerra popolare: “La guerra popolare, come qualcosa di vaporoso e di fluido, non deve condensarsi in alcuna sua parte in un corpo solido; altrimenti il nemico invia una forza adeguata contro questo nucleo, lo rompe e fa numerosi prigionieri; il coraggio allora si indebolisce, ciascuno pensa che la questione principale sia stata troncata, che ogni sforzo ulteriore sia vano e che le armi siano cadute in mano della nazione. Ma, d’altra parte, bisogna sì che questa nebbia si condensi in certi punti, formi delle masse compatte, delle nubi minacciose da cui può alla fine sorgere un terribile fulmine. Questi punti si situeranno soprattutto alle ali del teatro di guerra nemico. Non si tratta di rompere il nucleo, ma solamente di rodere la superficie e gli angoli” (De la guerre).

Gli enunciati che precedono vogliono introdurre a un’epoca sempre più concretamente minacciata dall’irruzione in blocco della realtà. L’etica della guerra civile che ha trovato in essi espressione, ricevette un giorno il nome di “Comitato Invisibile”. Essa designa una determinata frazione del Partito Immaginario: il suo polo rivoluzionario. Attraverso queste righe speriamo di mettere fuori gioco le più volgari sciocchezze che potranno essere profferite sulle nostre attività, come pure sul periodo che si apre. Tutto questo prevedibile chiacchiericcio, come potremmo non vederlo già anticipato nella reputazione che si fece lo shogunat Tokugawa alla fine dell’era Muromachi, e a proposito del quale uno dei nostri nemici osservava giustamente: “Per la sua stessa agitazione, nell’inflazione delle pretese illegittime, quest’epoca di guerra civile si rivelerà come la più libera che il Giappone abbia conosciuto. Una congerie di genti di ogni sorta se ne lasciarono affascinare.

Come lo intendiamo, il Partito non è l’organizzazione (dove tutto è inconsistente a forza di trasparenza) e il Partito non è una famiglia (dove tutto sa di inganno a forza di opacità). Il Partito è un insieme di luoghi, infrastrutture, mezzi messi in comune, e i sogni, i corpi, i sussurri, i pensieri, i desideri che circolano tra quei luoghi, l’uso di quei mezzi, la condivisione di quelle infrastrutture. La nozione di Partito risponde all’esigenza di una formalizzazione minima che ci rende accessibili, permettendoci al contempo di restare invisibili. Fa parte dell’esigenza comunista spiegare a noi stessi, formulare i principi della nostra condivisione. Sicché l’ultimo arrivato sia almeno in questo alla pari del più vecchio. A considerarlo con più attenzione, il Partito potrebbe non esser altro che questo: la costituzione in forza di una sensibilità. Lo spiegamento di un arcipelago di mondi. Che cosa sarebbe, sotto l’impero, una forza politica che non avesse le sue fattorie, le sue scuole, le sue armi, le sue medicine, le sue case collettive, i suoi tavoli di  montaggio, le sue tipografie, i suoi camion coperti e le sue teste di ponte nelle metropoli? Ci sembra sempre più assurdo che qualcuno debba ancora lavorare per il capitale ­a parte ovviamente i diversi lavori di infiltrazione­. La capacità offensiva del Partito deriva dal fatto che esso è anche forza di produzione, ma che al suo interno i rapporti sono rapporti di produzione solo in maniera incidentale. Il capitalismo è consistito nella riduzione di tutti i rapporti, in ultima istanza, a rapporti di produzione. Dall’impresa alla famiglia, il consumo appare come un altro episodio della produzione generale, della produzione di società. A rovesciare il capitalismo saranno coloro che saranno riusciti a creare le condizioni per altri tipi di rapporti.

Precisamente, sulla base della disintegrazione finale della società e dei soggetti, al momento l’Impero si propone di ricreare da solo un tessuto etico; di questo i modaioli, con i loro quartieri, la loro stampa, i loro codici, il loro cibo e le loro idee modulari, sono contemporaneamente le cavie e l’avanguardia. Ed è per questo che, dall’East Village ai Parioli passando per Prenzlauer Berg, il fenomeno modaiolo ha subito avuto una diffusione mondiale.
Su questo terreno totale, il terreno etico delle forme di-vita, attualmente si gioca la guerra contro l’Impero. L’Impero è solo l’ambiente ostile che si oppone passo passo alla nostra fuga. Siamo impegnati in una lotta la cui posta in gioco è la ricomposizione di un tessuto etico. Questo è leggibile sul territorio, nella progressiva trendizzazione di luoghi un tempo secessionisti, nell’incessante estensione dei dispositivi. Qui la concezione classica, astratta, di una guerra che culminerebbe nello scontro totale, in cui finalmente realizzare la propria essenza, è caduca. La guerra non si lascia più catalogare come un momento isolato della nostra esistenza, quello del confronto decisivo; oramai, la nostra stessa esistenza, in tutti i suoi aspetti, è la guerra. Questo significa che il primo movimento di questa guerra è la riappropriazione.
Riappropriazione dei mezzi per vivere-e-lottare. Riappropriazione dunque degli spazi: squatt, occupazioni o condivisione dei luoghi privati. Riappropriazione di ciò che è comune: formazione di linguaggi, sintassi, mezzi di comunicazione e di cultura autonomi – strappare la trasmissione dell’esperienza dalle mani dello Stato. Riappropriazione della violenza: trasmissione delle tecniche di lotta, formazione di strumenti di autodifesa, equipaggiamento. Infine, riappropriazione della sopravvivenza elementare: diffusione dei saperi-poteri medici, delle tecniche di furto ed esproprio, progressiva organizzazione di una rete di sostentamento autonoma.

Così la costruzione del Partito, nel suo aspetto più visibile, consiste per noi nella condivisione o comunizzazione di ciò di cui disponiamo. Mettere in comune un luogo vuol dire: renderne libero l’uso, e sulla base di questa liberazione sperimentare rapporti affinati, più intensi e più complessi. Se la proprietà privata è essenzialmente il potere discrezionale di privare chiunque si voglia dell’uso della cosa posseduta, la messa in comune significa privarne soltanto gli agenti dell’impero.

Ci opponiamo su ogni fronte al ricatto di dover scegliere tra offensiva e costruzione, tra negatività e positività, tra vita e sopravvivenza, tra la guerra e il quotidiano. Non lo accettiamo. Sappiamo troppo bene come questa alternativa divida, provochi scissioni e poi ancora scissioni in tutti i collettivi esistenti. Per una forza che si dispiega è impossibile dire se l’annientamento di un dispositivo che le nuoce sia una questione di costruzione o di offensiva, se il fatto di giungere a una relativa autonomia alimentare o medica costituisca un atto di guerra o di sottrazione. Ci sono circostanze, come una sommossa, in cui il fatto di potersi curare tra compagni aumenta in modo notevole la nostra capacità di devastazione. Chi può dire che l’armarsi non faccia parte della costituzione materiale di una collettività? Quando ci si intende su una strategia comune non esiste scelta tra offensivo e costruttivo: in ogni situazione è evidente ciò che accresce la nostra forza e ciò che la intacca, ciò che è opportuno e ciò che non lo è. E nel caso in cui tale evidenza manchi, c’è la discussione e, nel peggiore dei casi, l’azzardo. In linea generale non vediamo come qualcosa di diverso da una forza, da una realtà
in grado di sopravvivere allo smembramento totale del capitalismo, potrebbe attaccarlo davvero, vale a dire fino a questo smembramento. Quando sarà il momento si tratterà di volgere a nostro vantaggio il crollo sociale generalizzato; di trasformare un crollo come quello argentino, o sovietico, in situazione rivoluzionaria. Chi pretende di separare autonomia materiale e sabotaggio della macchina imperiale mostra abbastanza di non volere né l’una né l’altro.

Anno dopo anno,aumenta la pressione perché ogni cosa funzioni. Con il progredire della cibernetizzazione del sociale, la situazione normale diventa più imperiosa. E da lì in poi, in modo assolutamente logico, le situazioni di crisi e le disfunzioni si moltiplicano. Un black out, un uragano, o un movimento sociale non sono diversi dal punto di vista dell’impero. Sono fastidi. Devono essere gestiti. Ovvero, per il momento, a causa della nostra debolezza, queste situazioni di interruzione appaiono come momenti nei quali l’impero si presenta, dà la sua impronta alla materialità dei mondi, sperimenta nuovi metodi. È proprio lì che lega a sé in modo più vincolante la popolazione che pretende di salvare. L’impero afferma ovunque di essere l’agente del ritorno alla situazione normale. Il nostro compito, al contrario, è  quello di rendere abitabile la situazione d’eccezione. Riusciremo veramente a “bloccare la società­ impresa” soltanto a condizione di popolare tale blocco con desideri diversi da quello del ritorno alla normalità.

Quel che accade in uno sciopero è in certo qual modo simile a quanto accade in una “catastrofe naturale”. Si verifica una sospensione della regolarità organizzata delle nostre dipendenze. In ognuno, allora, è messo a nudo l’essere che ha bisogno, l’essere comunista, quello che essenzialmente ci lega ed essenzialmente ci separa. Il manto di vergogne che di solito copre tutto ciò si strappa. La disponibilità all’incontro, a sperimentare altri rapporti con il mondo, con gli altri, con se stessi, che si manifesta in quei   momenti è sufficiente a spazzare via ogni dubbio sulla possibilità del comunismo. E anche sul bisogno di comunismo. Dunque, ciò che si richiede è la nostra capacità di autorganizzarci, la nostra capacità di organizzarci subito sulla base dei nostri bisogni, di prolungare, propagare, rendere effettiva la situazione d’eccezione, sul terrore della quale si basa il potere imperiale. Questo è evidente in modo particolare nei “movimenti sociali”. La stessa espressione  “movimento sociale” sembra suggerire che tutto ciò che davvero importa è verso dove ci dirigiamo e non ciò che succede. Finora in tutti i movimenti sociali c’è stato un impegno a non impossessarsi di ciò che è là, il che spiega perché si susseguono l’uno all’altro senza aggregarsi ma piuttosto avvicendandosi. Di qui il carattere particolare, così mutevole, della socialità di movimento, dove ogni impegno sembra revocabile. Di qui anche il loro dramma costante: una crescita veloce, grazie alla risonanza sui media, e poi, sulla base di questa aggregazione affrettata, l’erosione, lenta ma fatale; e infine il movimento inaridito, l’ultimo gruppo di irriducibili che prendono la tessera di questo o quel sindacato, fondano questa quell’associazione, aspettandosi in tal modo di dare continuità organizzativa al loro impegno. Noi comunque non cerchiamo tale continuità: avere dei locali dove potersi incontrare e una fotocopiatrice per stampare opuscoli. La continuità che cerchiamo è quella che ci consente, dopo aver lottato per mesi, di non tornare a lavorare, di non riprendere di nuovo il lavoro come prima, di continuare a nuocere. E questa può essere costruita solo durante i movimenti. È questione di condivisione immediata, materiale, di costruzione di una vera macchina da guerra rivoluzionaria, di costruzione del Partito. Come dicevamo, si tratta di organizzarci sulla base dei nostri bisogni – riuscire a soddisfare progressivamente il problema comune di mangiare, dormire, pensare, amare, creare forme, coordinare le nostre forze – e  concepire tutto ciò come un momento della guerra contro l’impero.

In queste condizioni, il passaggio alle lotte sul territorio, la ricomposizione di un tessuto etico sulla base della secessione, il problema della riappropriazione dei mezzi per vivere, lottare e comunicare formano un orizzonte irraggiungibile fin quando non sarà ammesso il presupposto esistenziale della separ/azione. Separ/azione significa: non abbiamo niente a che vedere con questo mondo. Non abbiamo niente da dirgli, né niente da fargli capire. Le nostre azioni di distruzione, di sabotaggio, non abbiamo bisogno di farle seguire da una mirata spiegazione della Ragione umana. Non agiamo in virtù di un mondo migliore, alternativo, a venire, ma di ciò che fin d’ora sperimentiamo, della radicale inconciliabilità tra l’Impero e questa sperimentazione, di cui fa parte la guerra. E quando a questa specie di critica di massa, le persone ragionevoli, i legislatori, i tecnocrati, i governanti chiedono: «Ma cosa volete?», la nostra risposta è: «Noi non siamo cittadini. Mai adotteremo il vostro punto di vista della totalità, il vostro punto di vista della gestione. Rifiuteremo di stare al gioco, e basta. Non sta a noi dirvi con quale salsa vogliamo farci mangiare». La principale fonte della nostra paralisi, ciò con cui dobbiamo rompere, è l’utopia della comunità umana, la prospettiva della riconciliazione finale e universale.

«Ogni giorno i giovani aspettano la loro occasione, come l’aspettano gli operai, anche quelli vecchi . Tutti aspettano, quelli che sono scontenti e che riflettono. Aspettano che compaia una forza, qualcosa di cui faranno parte, una sorta di internazionale nuova, che non farà gli errori di quelle passate — una possibilità di farla finita una volta per tutte con il passato. E che cominci qualcosa di nuovo. NOI ABBIAMO COMINCIATO. »

8.

L’impero non si oppone a noi come un soggetto che ci starebbe di fronte, ma come un ambiente che ci è ostile.

L’impero non è una sorta di entità ultraterrestre, una cospirazione planetaria dei governi, delle reti finanziare, dei tecnocrati e delle multinazionali. L’impero si trova ovunque non accade niente. Ovunque le cose funzionano. Ovunque regni la situazione normale. È a forza di vedere il nemico come un soggetto che ci sta di fronte – anziché sentirlo come un rapporto che ci vincola –  che ci rinchiudiamo nella lotta contro il rinchiudere. Che riproduciamo con la scusa dell’“alternativa” il peggio dei rapporti  dominanti. Che ci mettiamo a vendere la lotta contro la merce. Che nascono le autorità della lotta antiautoritaria, il femminismo con i coglioni e i linciaggi  antifascisti.
In ogni momento siamo parte di una situazione. Al suo interno non ci sono soggetti e oggetti, io e gli altri; i miei desideri e la realtà, ma l’insieme delle relazioni, l’insieme dei flussi che l’attraversano. C’è un contesto generale – il capitalismo, la civiltà, l’impero, come si preferisce – un contesto generale che non vuole soltanto controllare ogni situazione ma, peggio, cerca di far sì che non esistano situazioni. SI sono messe a punto le strade e le case, la lingua e gli affetti, e anche il ritmo mondiale che trascina tutto ciò, a questo unico scopo.

La “situazione normale” è questa assenza di situazione. Organizzarsi vuol dire: partire dalla situazione e non rifiutarla. Prendere partito al suo interno. Là tessere le solidarietà materiali, affettive, politiche. Qualsiasi sciopero in qualsiasi ufficio, in qualsiasi fabbrica fa proprio questo. Come lo fa qualsiasi banda. Qualsiasi maquis1. Qualsiasi partito rivoluzionario o controrivoluzionario. Organizzarsi vuol dire: dare consistenza alla situazione. Renderla reale, tangibile.

La posizione presa in una situazione determina l’esigenza di creare alleanze, e perciò  di stabilire canali di comunicazione, di circolazione più ampi. A loro volta questi nuovi legami riconfigurano la situazione. Alla situazione in cui siamo diamo il nome di “guerra civile mondiale”. Dove niente può più contenere lo scontro diretto delle forze contrapposte. Nemmeno il diritto, che entra piuttosto in gioco come forma ulteriore dello scontro generalizzato. Il NOI che qui si esprime non è un NOI delimitabile, isolato, il NOI di un gruppo. È il NOI di una posizione. Questa posizione si afferma oggi come duplice secessione: in primo luogo dal processo di valorizzazione capitalistico, secessione poi dalla sterilità implicita nella semplice opposizione all’impero, sia essa extraparlamentare o di altro tipo. Secessione, dunque, dalla sinistra. Dove “secessione” non indica tanto il rifiuto pratico di comunicare, quanto una disposizione a forme di comunicazione così forti da strappare al nemico, là dove si realizzano, la maggior parte delle sue forze. Per farla breve, tale posizione prende a prestito la forza d’irruzione delle Black Panthers, le mense collettive degli Autonomen tedeschi, le case sugli alberi e l’arte del sabotaggio dei neo­luddisti inglesi, l’accurata scelta delle parole delle femministe radicali, le autoriduzioni di massa degli autonomi italiani e la gioia
armata del movimento 2 giugno.

“MA CHE COSA volete?

Che cosa proponete?” Questo tipo di domande può sembrare innocente. Ma purtroppo non si tratta di domande. Si tratta di operazioni. Il riferire ogni NOI che si esprime a un VOI esterno significa in primo luogo allontanare la minaccia che questo NOI in qualche modo mi tiri in ballo, che questo NOI mi attraversi. Trasformando così chi soltanto porta un enunciato – in se non assegnabile– nel suo proprietario. Invece, nell’organizzazione metodica della separazione oggi operante, le affermazioni possono essere diffuse solo a condizione che dimostrino di avere un proprietario, di avere un autore. Altrimenti rischiano di essere comuni, e solo gli “enunciati del si” sono autorizzati alla diffusione anonima. Poi, c’è anche la seguente mistificazione: che, colte al volo nel fluire di un mondo che avversiamo, ci sarebbero proposte da fare, alternative da trovare. Che noi potremmo, in altre parole, tirarci fuori dalla situazione che ci è predisposta, discuterla in modo spassionato, tra persone ragionevoli.
No, non c’è nulla oltre la situazione. Non c’è un fuori dalla guerra civile mondiale. Siamo irrimediabilmente lì. Tutto quello che possiamo fare è elaborare, lì, una strategia. Condividere un’analisi della situazione e quindi elaborare una strategia. Questo è l’unico NOI possibilmente rivoluzionario, il NOI pratico, aperto e diffuso, di chiunque agisca nella stessa direzione.

D’ora in poi ogni nostra amicizia è politica.

I punti, i nodi, i focolai di resistenza sono disseminati nel tempo e nello spazio con minore o maggiore densità, a volte modellano gruppi o individui in modo definitivo, accendono punti del corpo, momenti della vita, tipi di comportamento. Grandi rotture radicali, grandi divisioni binarie e massicce? A volte. Ma più spesso abbiamo a che fare con punti di resistenza mobili e transitori, che introducono nella società sfaldature mobili, che rompono unità e producono raggruppamenti, che traversano gli individui stessi, ritagliandoli e rimodellandoli, e tracciano in loro, nel loro corpo e nella loro anima, regioni irriducibili. Proprio come la rete delle relazioni di potere finisce per formare un tessuto spesso che attraversa i dispositivi e le istituzioni, senza localizzarsi precisamente in esse, allo stesso modo il disseminarsi dei punti di resistenza attraversa le stratificazioni sociali e le unità individuali. La codificazione strategica di questi punti di resistenza è ciò che rende possibile una rivoluzione.

La sfera dell’ostilità non può essere ridotta se non estendendo il dominio etico-politico dell’amicizia e dell’inimicizia; questa la ragione per cui l’Impero non vi riesce, malgrado tutte le sue proteste in favore della pace. Il divenir-reale del Partito Immaginario non è che la formazione per contagio del piano di consistenza in cui amicizie e inimicizie si dispiegano liberamente e si rendono leggibili a loro stesse. L’agente del Partito Immaginario è colui che, partendo da là dove si trova, dalla sua
posizione, mette in moto o persegue il processo di polarizzazione etica, di assunzione differenziale delle forme-di-vita. Questo processo non è altro che il Tiqqun.
Il Tiqqun è il divenir-reale, il divenir-pratico del mondo; il processo di rivelazione di ogni cosa come pratica, ossia come prendente dimora nei suoi limiti, nella sua significazione immanente. Il Tiqqun è che ogni atto, ogni condotta, ogni enunciato dotato di senso, ossia in quanto evento, si iscrive da se stesso nella sua metafisica propria, nella sua comunità, nel suo partito.
La guerra civile vuol dire soltanto: il mondo è pratico, la vita è eroica in tutti i suoi dettagli.

9.

SUL COMUNISMO
(lo sfinimento non e’ un argomento e’ uno stato)

Il movimento operaio è stato sconfitto dalla democrazia, ciò significa che nulla di quanto è scaturito da questa tradizione è in grado di far fronte alla nuova configurazione delle ostilità. Al contrario. Quando l’hostis non è più una porzione della società – la borghesia – ma la società in quanto tale, in quanto potere, e dunque ci ritroviamo a lottare non contro tirannie classiche bensì contro democrazie biopolitiche, sappiamo che restano da inventare tutte le armi così come tutte le strategie. L’hostis si chiama Impero, e per lui noi siamo il Partito immaginario.

Classe contro classe» significa in realtà «classe contro non-classe».

Il proletariato non è una classe. Come già sapevano i tedeschi del secolo scorso, es gibt Pöbel in allen Ständen (in tutte le classi c’è della plebe)
Ogni volta che ha tentato di definirsi in quanto classe, il proletariato si è vuotato di se stesso, si è modellato sulla classe dominante, la borghesia. In quanto non-classe, il proletariato non si contrappone alla borghesia ma alla piccola borghesia. Mentre il piccolo borghese crede di potersela cavare abilmente nel gioco sociale, è persuaso di riuscire a sfangarsela individualmente, il proletario sa che il suo destino dipende dalla cooperazione con gli altri, che ha bisogno di loro per persistere nel suo essere, insomma che la sua esistenza individuale è immediatamente collettiva. Detto altrimenti: il proletario è colui che si sperimenta come forma-di-vita. È comunista o non è niente.

Non è un’obiezione al comunismo che la più grande sperimentazione di condivisione nel periodo recente sia stato il movimento anarchico spagnolo tra il 1868 e il 1939…

La separazione più estrema insegna il contenuto della parola “comunismo”. Il comunismo non è un sistema politico o economico. Il comunismo non ha bisogno  di Marx. Il comunismo se ne fotte dell’URSS. Sarebbe difficile capire perché per mezzo secolo ogni dieci anni SI è preteso di riscoprire i crimini di Stalin gridando:
“Guardate cos’è il Comunismo!”, se non SI fosse intuito che in realtà ogni cosa ci spinge in questa direzione. Il solo argomento che abbia mai resistito contro il comunismo era che non ne avevamo bisogno. E certo, per quanto limitati, non molto tempo fa sopravvivevano ancora qua e là cose, linguaggi, pensieri, luoghi che erano comuni, almeno abbastanza da non deperire. C’erano mondi ed erano abitati. Il rifiuto di pensare, il rifiuto di porre la  questione del comunismo aveva dei motivi, dei motivi pratici. Sono stati spazzati via. Il riferimento traumatico di questa purga definitiva sono gli anni ‘80. Gli anni ‘80 come perdurano.

Da allora tutte le relazioni sociali sono diventate sofferenza. Al punto da rendere preferibile qualsiasi anestesia, qualsiasi isolamento. In certo qual modo è il liberalismo  esistenziale a spingerci verso il comunismo con l’eccesso stesso del suo trionfo. La questione comunista riguarda l’elaborazione del nostro rapporto con il mondo, gli esseri, noi stessi. Riguarda l’elaborazione del gioco tra i vari mondi, la comunicazione tra essi. Non riguarda l’unificazione dello spazio mondiale, ma l’instaurazione del sensibile, vale a dire della pluralità dei mondi. In quel senso il comunismo non è la fine di ogni conflittualità, non descrive uno stadio finale della società dopo il quale tutto è detto. Perché è anche attraverso il conflitto che i mondi comunicano. “Nella società borghese, dove le differenze tra gli uomini sono soltanto quelle che non riguardano l’uomo di per sé, sono proprio le vere differenze, le differenze di qualità, che non sono tenute in considerazione. Il comunista non vuole creare un’anima collettiva. Vuole realizzare una società in cui siano eliminate le false differenze. Ed, eliminate le false differenze, aprire tutte le possibilità alle differenze vere”. Così parlava un vecchio amico.

È evidente ad esempio che SI è preteso di eliminare il problema di ciò che mi è appropriato, di ciò di cui ho bisogno, di ciò che fa parte del mio mondo, con la sola finzione poliziesca della proprietà legale, di quello che mi appartiene, di quello che è mio. Una cosa mi è propria non in virtù di qualche titolo giuridico ma nella misura in cui appartiene all’ambito di quello che uso. Alla fine la proprietà legale non ha altra realtà che le forze che la proteggono. La questione del comunismo è dunque da un lato abolire la polizia e dall’altro elaborare modi di condivisione, di uso, tra quelli che vivono insieme. È la questione che SI elude ogni giorno dicendo “sono stufo” e “non menartela”. Il comunismo, certo, non è dato. È da essere pensato, è da fare. E  così tutto quello che viene espresso contro di esso si riassume in un’espressione di sfinimento: “Non ce la farete mai… Non può funzionare… Gli esseri umani sono quello che sono… ed è già abbastanza duro vivere la propria vita… l’energia ha dei  limiti… non possiamo fare tutto”. Ma lo sfinimento non è un argomento, è uno stato.

Il comunismo inizia dall’esperienza della condivisione. E in primo luogo, dalla condivisione dei bisogni. I bisogni non sono quelle cose cui ci hanno abituato i meccanismi capitalistici. Il bisogno non è mai bisogno di cose senza contemporaneamente essere bisogno di mondi. Ciascuno dei nostri bisogni ci lega, al di là di ogni vergogna, a tutto ciò che lo mette alla prova. Il bisogno è semplicemente il nome del rapporto attraverso il quale un dato essere sensibile fa esistere questo o quell’elemento del suo mondo. Questo è il motivo per cui chi non ha mondi le soggettività metropolitane per esempio ­ha solo capricci. E questo è il motivo per cui il capitalismo, pur soddisfacendo al massimo il bisogno di cose, diffonde soltanto insoddisfazione generale, perché per poterlo fare deve distruggere i mondi.

Con comunismo noi intendiamo una certa disciplina dell’attenzione. La pratica del comunismo, come la viviamo, la chiamiamo “Partito”. Quando insieme superiamo un ostacolo, o quando raggiungiamo un livello più alto di condivisione, diciamo che “stiamo costruendo il Partito”. Certamente altri, che ancora non conosciamo, stanno costruendo il Partito altrove. Questo appello è rivolto a loro. Nessuna esperienza di comunismo può oggi sopravvivere senza  organizzarsi, senza legarsi ad altri, senza mettersi in crisi, senza muovere guerra. “Perché le oasi che dispensano vita sono annientate quando in esse cerchiamo rifugio”. Come lo concepiamo noi, il processo di instaurazione del comunismo può unicamente prendere la forma di un insieme di atti di comunizzazione, rendere comune un tal posto, una tale macchina, un tal sapere. Vale a dire elaborare la modalità di condivisione che è a loro collegata. L’insurrezione stessa è soltanto un acceleratore, un momento decisivo in questo processo.

Così il comunismo di cui parliamo è l’esatta opposizione a quello che SI è chiamato “comunismo” e che nella maggior parte dei casi è stato soltanto socialismo, capitalismo monopolistico di stato. Il comunismo non consiste nell’elaborazione di nuovi rapporti di produzione, ma in realtà nell’abolizione di questi. Non avere rapporti di produzione col nostro ambiente o tra di noi significa non permettere mai che la ricerca dei risultati diventi più importante dell’attenzione al processo; rovinare tra di noi ogni forma di valorizzazione, badare a non disgiungere affetto e cooperazione. Essere attenti ai mondi, alla loro configurazione sensibile, è esattamente rendere impossibile isolare qualcosa come “rapporti di produzione”.

Nei luoghi che apriamo, nei mezzi che condividiamo, è questa finezza che ricerchiamo, che sperimentiamo. Per dare un nome a questa esperienza ricorre spesso la parola “gratuità”. Anziché di gratuità preferiamo parlare di comunismo ­perché non riusciamo mai a dimenticare ciò che la pratica della gratuità implica in termini di organizzazione e, nel breve periodo, di antagonismo politico.

10.

il non rappresentabile

La classe operaia è stata solo transitoriamente la sede privilegiata del proletariato, del proletariato in quanto «classe della società civile che non è una classe della società civile», in quanto «ordine che dissolve tutti gli altri ordini» (Marx). Già tra le due guerre, il proletariato inizia a debordare visibilmente la classe operaia, al punto che le frazioni più avanzate del Partito immaginario cominciano a riconoscere in essa, nel suo fondamentale lavorismo, nei suoi presupposti «valori», nella soddisfazione classista di sé, insomma nel suo essere-classe omologa a quella borghese, l’acerrimo nemico e il più potente vettore di integrazione alla società del Capitale. Da qui in poi, il Partito immaginario sarà la forma di apparizione del proletariato.

In ogni epoca la forma di apparizione del proletariato si ridefinisce in funzione della configurazione generale delle ostilità. La confusione più spiacevole a questo proposito riguarda la «classe operaia». In quanto tale, la classe è sempre stata ostile al movimento rivoluzionario, al comunismo. Non fu socialista per caso, lo fu per essenza. Fatta eccezione per gli elementi plebei, ovvero proprio ciò che non era riconoscibile come operaio, il movimento operaio coincise per tutta la sua esistenza con la frazione progressista del capitalismo.

Dal febbraio 1848 fino alle utopie di autogestione degli anni Settanta passando per la Comune, per quanto riguarda i suoi elementi più radicali, ha sempre rivendicato soltanto il diritto dei proletari di gestirsi da soli il Capitale. Nei fatti, ha sempre lavorato solo all’allargamento e all’approfondimento della base umana del Capitale. I regimi detti «socialisti» realizzarono in tutto e per tutto il suo programma: l’integrazione di tutti nel rapporto di produzione capitalista e l’inserimento di ognuno nel processo di valorizzazione. Il loro crollo, a sua volta, non avrà fatto altro che attestare l’inattuabilità del programma capitalista globale.

È dunque attraverso le lotte sociali e non contro di esse che il Capitale si è installato nel cuore dell’umanità, che quest’ultima se n’è effettivamente riappropriata fino a diventare, letteralmente, il popolo del Capitale. Oggi, il movimento sociale, con i suoi neo-sindacalisti, i suoi militanti informali, i suoi spettacolari portavoce, il suo nebuloso stalinismo e i suoi micro-politici, è l’erede del movimento operaio:
contratta con gli organi conservatori del Capitale l’integrazione dei proletari nel processo di valorizzazione riformato. In cambio di un riconoscimento istituzionale incerto – incerto in virtù dell’impossibilità logica di rappresentare il non rappresentabile, il proletariato – il movimento operaio e poi sociale si è impegnato a garantire la pace sociale al Capitale. Quando una delle sue desertiche muse, Susan George, denuncia dopo Göteborg quei casseurs i cui metodi «sono tanto anti-democratici quanto quelli delle istituzioni che pretendono di contestare», quando a Genova la Tute bianche consegnano agli sbirri gli elementi presupposti degli introvabili «black bloc» – che paradossalmente diffamano come infiltrati della stessa polizia – i rappresentanti del movimento sociale non possono non ricordarci la reazione del partito operaio italiano di fronte al movimento del ’77.

Isolando tra le masse di poveri i «criminali», i «violenti», i «folli», i «vagabondi», i «perversi», le «canaglie», i «teppisti», non si neutralizza semplicemente lo strato popolare che per il potere e’ più pericoloso, ma ci si dota della possibilità di rivoltare contro il popolo i suoi elementi più offensivi. Sarà il ricatto permanente del «o vai in prigione o vai nell’esercito», «o vai in prigione o parti per le colonie», «o vai in prigione o entri in polizia» ecc. Tutto il lavoro del movimento operaio per distinguere gli onesti lavoratori eventualmente in sciopero dai «provocatori», dai «casseurs » e dagli altri «incontrollabili» prolunga questa modalità di opposizione della plebe al proletariato. Il movimento operaio divenne portatore dell’Utopia-Capitale, quella di una «comunità del lavoro in cui non esistevano altro che produttori, senza scioperati o disoccupati, e che avrebbe gestito senza crisi e disuguaglianze il capitale, diventato in tal modo La Società»

X.

Intermezzo

In maniera generale, non è l’importanza numerica di un movimento che determina la sua forza di rovesciamento, ma lo spessore del suo piano di consistenza – cosa sono tre milioni di corpi che sfilano «contro il terrorismo e per la democrazia»? Niente. Al contrario, è la vittoria finale della repressione, e di certo anche l’effetto che ha ricercato, il fatto di ottenere che dello spessore primario resti solo lo scheletro articolato delle organizzazioni.
Una volta che la sconfitta sarà stata consumata, la scrittura poliziesca della storia riassumerà lo spessore vissuto, transitivo, fisico del movimento, nel gioco meccanico di qualche organizzazione, di qualche soggetto. Le causalità sono l’invenzione dello Stato. Sono le promesse incompiute del «passato» che ci portano, non i limiti evidenti degli esperimenti effettivi.

10.

Come fare?

Quando il potere stabilisce in tempo reale la sua legittimità, quando la sua violenza diventa preventiva e il suo diritto è un «diritto d’ingerenza»,
allora non serve più avere ragione. Avere ragione contro di lui. Bisogna essere più forti o più astuti. È per questo, anche per questo, che ricominciamo.

Ricominciare non è mai ricominciare qualcosa. Né riprendere una cosa al punto in cui la si era lasciata.  Quel che si ricomincia è sempre altro. È sempre inaudito. Perché non è il passato che ci spinge a farlo, ma precisamente quel che in esso non è avvenuto. E perché così siamo noi stessi, allora, che ricominciamo. Ricominciare vuol dire: uscire dalla sospensione.  Ristabilire il contatto tra i nostri divenire.
Partire,
di nuovo,
da dove siamo,
ora.

11.

Come fare?

Vuol dire che lo scontro militare con l’Impero deve essere subordinato all’intensificazione delle relazioni all’interno del nostro partito. Che il politico
non è altro che un certo grado di intensità in seno all’elemento etico. Che la guerra rivoluzionaria non va piùconfusa con la sua rappresentazione: il momento bruto del combattimento.

Non si tratta più di raccogliersi in un soggetto compatto per far fronte allo Stato, ma di disseminarsi in una moltitudine di focolai come altrettante falle della totalità capitalista. L’autonomia non sarà tanto un insieme di radio, di gruppi, di armi, di feste, di rivolte, di squatt, quanto una certa intensità di circolazione dei corpi tra tutti questi punti. Così, l’autonomia non esclude l’esistenza di organizzazioni al suo interno, quand’anche queste rivelino ridicole pretese neo-leniniste: ogni organizzazione vi si trova a sua volta riportata a rango di architettura vuota, attraversata a seconda delle circostanze dai flussi del Movimento. Dal momento in cui il Partito immaginario si costituisce in tessuto etico secessionista, scompare la possibilità stessa di una strumentalizzazione del Movimento da parte delle organizzazioni e, a maggior ragione, di una sua infiltrazione: sono piuttosto le organizzazioni a essere destinate alla sussunzione nel Movimento, come semplici punti del suo piano di consistenza. Diversamente dalle organizzazioni combattenti, l’autonomia si basa sulla non distinzione, sull’informalità, su una semi-clandestinità adeguata alla pratica cospirativa.

La guerra imperiale non ha inizio né fine, è un processo di pacificazione permanente. La sostanza dei suoi metodi e dei suoi principi è nota da cinquant’anni. È stata elaborata in occasione delle guerre di decolonizzione. In quel contesto il dispositivo statale di oppressione subisce un’alterazione decisiva. Il nemico non è più un’entità isolabile, una nazione straniera o una classe determinata, è imboscato da qualche parte tra la gente, senza visibili attributi. Al limite coincide con la popolazione stessa in quanto potenza insurrezionale. La configurazione delle ostilità propria del Partito immaginario si manifesta immediatamente con le sembianze della guerriglia, della guerra partigiana. Allora non solo l’esercito diventa polizia, ma il nemico diventa «terrorista» – «terroriste» sono le resistenze all’occupazione tedesca, «terroristi» sono gli insorti algerini contro l’occupazione francese, «terroristi» sono i militanti anti-imperialisti degli anni Settanta, «terroristi» sono oggi gli elementi troppo determinati del movimento antiglobalizzazione.

Nella misura in cui l’Impero non può riconoscere un nemico, un’alterità, una differenza etica, non può nemmeno riconoscere la situazione di guerra che esso crea. Non ci sarà allora uno Stato d’eccezione in senso stretto, ma un’emergenza permanente indefinitamente proclamata. Ufficialmente non si sospenderà l’ordine legale per condurre la guerra al nemico interno, agli insorti o a qualunque altra cosa, ci si limiterà ad aggiungere all’ordine legale in vigore un insieme di leggi ad hoc, destinate alla lotta al nemico inconfessabile.

Una minaccia terrorista immaginaria, irlandese o musulmana, consentirà di giustificare regolari pattugliamenti di uomini armati nelle stazioni, negli aeroporti, nei metrò. Generalmente si cercherà di moltiplicare i punti di confusione tra il civile e il militare. L’informatizzazione del sociale – ovvero il fatto che ogni gesto tendenzialmente produca informazione – costituisce il cuore di questa integrazione. La moltiplicazione dei dispositivi di sorveglianza diffusa, di tracciatura e registrazione ha come obiettivo di generare a profusione questa low grade intelligence (informazione di bassa qualità), sulla quale la polizia potrà in seguito basare i propri interventi.

La sovranità della polizia, ridiventata macchina da guerra, non subirà più contestazioni. Le si riconoscerà il diritto di sparare a vista, riesumando nei fatti una pena di morte che di diritto non esiste più. Si allungherà la durata massima della detenzione preventiva in modo tale che l’imputazione varrà ormai come condanna. In alcuni casi la lotta «antiterrorista» legittimerà reclusioni senza processo e perquisizioni senza mandato. Non si giudicherà più sui fatti ma sulle persone; qualifiche criminali volutamente vaghe come «complicità morale», «concorso ad associazione criminale» o «incitamento alla guerra civile» saranno create a questo scopo. E quando questo non basterà, si giudicherà per teorema. Per mettere in evidenza la differenza tra cittadini accusati e «terroristi» si predisporranno leggi sul pentimento, dando a ciascuno la possibilità di diventare un infame.

Sarebbe sbagliato credere che ciò nonostante lo Stato sopravviva a se stesso. All’interno della guerra civile mondiale la sua pretesa neutralità etica non riesce più a creare illusioni. La stessa forma-tribunale è percepita come un’esplicita modalità della guerra. A scomparire è l’idea dello Stato come mediazione tra parti.

Così come lo Stato italiano non è sopravvissuto agli anni Settanta, alla guerriglia diffusa, o per lo meno non è sopravvissuto in quanto Stato, ma solo in quanto partito, in quanto partito dei cittadini, ovvero della polizia edella passività . Ed è di questo partito che la rivincita della passione economica sancì l’effimera vittoria negli anni Ottanta. Ma il completo naufragio dello Stato si compie del tutto solo nel momento in cui raggiunge il suo vertice, quando si impadronisce del teatro della politica classica un uomo il cui programma è precisamente distruggerla e sostituirla con una pura gestione imprenditoriale. A questo punto lo Stato è apertamente un partito. Con Berlusconi non è un individuo singolo ad aver preso il potere, ma una forma-di-vita: quella del piccolo imprenditore arrivista e filofascista del Nord Italia. Il potere è di nuovo eticamente fondato – fondato sull’impresa come
sola forma di socializzazione al di fuori della famiglia – ecolui che l’incarna non rappresenta nessuno e tutto fuorché una maggioranza, ma è una forma-di-vita perfettamente distinguibile, con la quale solo una frazione molto ridotta della popolazione può identificarsi. Proprio come tutti riconoscono in Berlusconi il clone del pirla della porta accanto, la copia conforme del peggior parvenu del quartiere, così tutti sanno che era membro della loggia P2, che aveva fatto dello Stato italiano uno strumento al suo servizio. E così, pezzo dopo pezzo, lo Stato naufraga nel Partito immaginario.

Lo Stato moderno avrà fallito in tre maniere: anzitutto come Stato assolutista, poi come Stato liberale, e ben presto come Stato-provvidenza. Il passaggio dall’uno all’altro si comprende in relazione a tre forme successive, e corrispondenti termine a termine, della guerra civile: la guerra di religione, la lotta di classe, il Partito Immaginario. Va notato che il fallimento in questione non risiede affatto nel risultato, ma coincide con il processo stesso, in tutta la sua durata.

L’Impero si presenta oggi come l’assunzione dell’impossibilità dello Stato moderno ed allo stesso tempo come assunzione dell’impossibilità dell’imperialismo. Da questo punto di vista la decolonizzazione, caratterizzata dalla proliferazione di Stati-fantoccio, rappresenta un momento importante della instaurazione dell’Impero. La decolonizzazione, infatti, istituisce nuove forme orizzontali di potere, forme infra-istituzionali, che funzionano meglio delle precedenti. La sovranità dello stato moderno era fittizia e personale. La sovranità imperiale è pragmatica e impersonale. A differenza dello stato moderno, l’Impero può legittimamente proclamarsi democratico, nella misura in cui non bandisce né privilegia a priori alcuna forma-di-vita. E a ragion veduta, giacché proprio lui assicura l’attenuazione simultanea di tutte le forme-di-vita e il loro libero gioco in questa attenuazione.

l’Impero è tanto più all’opera quanto la crisi è ovunque. La crisi è il modo regolare di esistere dell’Impero, allo stesso modo in cui l’esistenza di una società assicurativa si trova là dove accade un incidente. La temporalità dell’Impero è quella dell’emergenza e della catastrofe.

L’Impero non ha e non avrà mai un’esistenza giuridica, istituzionale, perché non ne ha bisogno. L’Impero, a differenza dello Stato moderno, che pretendeva di essere un ordine basato sulla Legge e sull’Istituzione, è il garante di una proliferazione reticolare di norme e di dispositivi. In tempi normali, questi dispositivi sono l’Impero ogni intervento dell’Impero lascia dietro sé delle norme e dei dispositivi in virtù dei quali il luogo in cui era sopraggiunta la crisi sarà gestito come spazio di circolazione trasparente. La società imperiale così si prospetta: un’articolazione immensa di dispositivi che innerva l’inerzia fondamentale del tessuto biopolitico elettrizzandola. Nella quadrettatura reticolare della società imperiale, continuamente minacciata dalla disfunzione, dall’incidente, dal blocco, l’Impero è ciò che assicura l’eliminazione delle resistenze alla circolazione, che liquida ciò che ostacola la penetrazione e l’attraversamento dei flussi sociali. L’Impero è ciò che rende sicure le transazioni, che garantisce la superconduttività sociale.

L’Impero calcola, soppesa, valuta, poi decide di presentarsi in un luogo o in un altro, di manifestarsi o ritirarsi. L’Impero non è ovunque, e non è assente da nessun luogo. A differenza dello Stato moderno, l’Impero non pretende di essere la cosa più alta, il sovrano sempre visibile e radioso, ma di essere l’ultima istanza di ogni situazione.

Se lo Stato moderno regnava sulla “repubblica fenomenica degli interessi”, possiamo dire che l’Impero regna sulla repubblica fenomenica delle differenze. È ormai attraverso questa mascherata depressiva che si scongiura l’espressione delle forme-di-vita. Così il potere imperiale può restare impersonale: perché è lui stesso il potere personalizzante; così il potere imperiale è totalizzante: perché è lui stesso che individualizza. Più che con delle individualità o delle soggettività, abbiamo qui a che fare con delle individualizzazioni e delle soggettivazioni: transitorie, usa-e-getta, modulari. L’Impero è il libero gioco dei simulacri. L’unità dell’Impero non è ottenuta a partire da qualche supplemento formale alla realtà, ma sulla scala più bassa, a livello molecolare. L’unità dell’Impero non è che l’uniformità mondiale delle forme-di-vita attenuate prodotta dalla congiunzione dello Spettacolo e del Biopotere. Uniformità mutante più che variegata, poiché fatta certo di differenze, ma tutte tali in rapporto alla norma.
Differenze quindi normalizzate. Uniformità fatta di scarti statici. Niente impedisce, sotto l’Impero, di essere un po’ punk, leggermente cinici o moderatamente SM. L’Impero tollera tutte le trasgressioni, a patto che esse restino soft. Non si ha più a che fare, qui, con una totalizzazione volontaristica a priori, ma con una calibratura molecolare delle soggettività e dei corpi. “Nella misura in cui il potere si fa più anonimo e funzionale, ciò su cui esso si esercita tende ad essere più fortemente individualizzato” (Foucault, Surveiller et punir).

Il fatto più sconvolgente di questi ultimi vent’anni è senz’altro che l’Impero sia riuscito a ritagliarsi sulle ma- cerie della civiltà una nuova umanità, organicamente fedele alla sua causa: i cittadini. I cittadini sono coloro che, all’interno della generale conflagrazione del sociale,
continuano a proclamare un’astratta partecipazione a una società che esiste solo in negativo, attraverso il terrore esercitato su tutto ciò che minaccia di disertarla e dunque di sopravviverle. I casi e le ragioni che producono il cittadino riportano tutti nel bel mezzo dell’impresa imperiale: attenuare le forme-di-vita, neutralizzare il corpo; questa impresa è a sua volta prolungata dallo stesso cittadino nell’auto-annientamento del rischio che egli rappresenta per l’ambiente imperiale. Questa frazione variabile degli agenti incondizionali che l’Impero preleva su ogni popolazione costituisce la realtà umana dello spettacolo e del biopotere; il punto della loro assoluta coincidenza. C’è allora una fabbrica del cittadino il cui durevole insediamento è la principale vittoria dell’Impero; vittoria che non è semplicemente sociale o politica o economica, ma antropologica. Ovviamente, per ottenerla non sono stati risparmiati mezzi.

Il suo punto d’avvio è la ristrutturazione offensiva del modo di produzione capitalista che risponde, fin dall’inizio degli anni Settanta, alla riconquista della conflittualità operaia nelle fabbriche e all’incredibile disinteresse per il lavoro che si manifesta tra legiovani generazioni del dopo ’68. Toyotismo, automazione, arricchimento e variazione delle mansioni, flessibilizzazione e individualizzazione delle condizioni di lavoro, delocalizzazione della produzione, decentramento, subappalto, flussi continui, gestione tramite progetti mirati, smantellamento delle grandi unità produttive, variabilità degli orari, liquidazione dei sistemi industriali pesanti, delle concentrazioni operaie sono i tanti risvolti di una riforma del modo di produzione, il cui obbiettivo era essenzialmente la ristrutturazione del potere capitalista sulla produzione. Tale ristrutturazione fu ovunque avviata da frange avanzate dell’imprenditoria, teorizzata da sindacalisti illuminati e messa in opera con l’accordo delle principali corporazioni operaie. Nel 1976 Lama spiegava a «la Repubblica» che «la sinistra deve deliberatamente e senza cattiva coscienza contribuire alla riformazione di margini di profitto alquanto diminuiti, anche se occorre proporre misure costose ai lavoratori»; da parte sua Berlinguer rivelerà contemporaneamente che «il terreno della produttività non è un’arma dei padroni», ma «un’arma del movimento operaio per spingere più avanti la politica di trasformazione». L’effetto della ristrutturazione coincide solo in superficie col suo intento: «Separare con la medesima azione gli operai contestatari e i capetti abusivi» (Boltanski, Le nouvel esprit du ca-pitalisme). Si tratta di purgare il cuore produttivo di una società in cui la produzione si militarizza da tutti i «devianti», le persone a rischio, i diversi agenti del Partito immaginario. Del resto la normalizzazione dentro e fuori dalle fabbriche avverrà con gli stessi metodi: travestendo i propri bersagli da «terroristi».

La sovranità imperiale consiste nel fatto che nessun punto dello spazio, del tempo, né alcun elemento del tessuto biopolitico è al riparo dal suo intervento. La messa in memoria del mondo, la reperibilità generalizzata, il fatto che i mezzi di produzione tendono a divenire inseparabilmente dei mezzi di controllo, la sussunzione dell’edificio giuridico in semplice arsenale della norma: tutto ciò tende a fare di ognuno un sospetto. un telefono portatile diventa uno spione, un mezzo di pagamento un estratto delle vostre abitudini alimentari, i vostri genitori si trasformano in informatori, una fattura di telefono diventa lo schedario delle vostre amicizie: tutta la sovrapproduzione di informazione inutile di cui siete oggetto si rivela cruciale per il semplice fatto di essere in ogni istante utilizzabile. Che essa sia anche disponibile fa pesare su ogni gesto una minaccia sufficiente. E l’incolto in cui l’Impero lascia la loro mobilitazione misura esattamente il sentimento che lo abita della sua propria sicurezza, quanto poco, per il momento, esso si senta in pericolo.

12.

Il Che fare? come ignoranza programmatica di questo. Come formula inaugurale del disamore indaffarato. Il Che fare? ritorna. Da qualche anno. Dalla metà degli anni Novanta, più che da dopo Seattle. Un revival della critica fa finta di affrontare l’Impero con gli slogan, le ricette degli anni Sessanta. Solo che questa volta si simula. Si simula l’innocenza, l’indignazione, la buona coscienza e il bisogno di società. Si rimette in circolazione tutta la vecchia gamma degli affetti social-democratici. Degli affetti cristiani. E di nuovo, ci sono le manifestazioni. Le manifestazioni ammazza-desiderio. In cui non
succede niente. E che non manifestano più nient’altro che l’assenza collettiva. Per sempre.
Per quelli che hanno la nostalgia di Woodstock, della gangia, del maggio ’68 e della militanza, ci sono i controvertici. Ci hanno ricostruito la messa in scena, ma manca il possibile. Ecco che ci comanda il Che fare? oggi: andare all’altro capo del mondo a contestare la merce globale per tornare, dopo un gran bagno di unanimismo e di separazione mediatizzata, a sottomettersi alla merce locale.
Al ritorno, con la foto sul giornale… Tutti soli insieme!… C’era una volta… Che gioventù!…
Peccato per i pochi corpi vivi, perduti lì in mezzo che cercavano invano uno spazio per il loro desiderio. Ritornano un po’ più annoiati. Un po’ più svuotati.Ridotti.
Di contro-vertice in contro-vertice finiranno per capire. Oppure no.

Non si contesta l’Impero sulla sua gestione. Non si critica l’Impero. Ci si oppone alle sue forze. Là dove si è. Dire il proprio parere su tale o talaltra alternativa, andare là dove si è chiamati non ha più senso. Perché non c’è nessun progetto globale alternativo al progetto dell’Impero. C’è una gestione imperiale. Ogni gestione è cattiva. Quelli che reclamano un’altra società farebbero meglio col cominciare a vedere che non ce ne sono più. E
forse allora smetterebbero di essere degli apprendisti gestori. Dei cittadini. Dei cittadini indignati . L’ordine globale non può essere preso come nemico. Direttamente. Perché l’ordine globale non ha luogo. Al contrario. È piuttosto l’ordine dei non-luoghi. La sua perfezione non sta nel fatto di essere globale,
ma di essere globalmente locale. L’ordine globale è la congiura di ogni evento perché è l’occupazione compiuta, autoritaria del locale.
Non ci si oppone all’ordine globale se non localmente. Tramite l’estensione di zone d’ombra sulle carte dell’Impero. Tramite la loro messa in contatto progressiva. Sotterranea.

La politica che viene. Politica dell’insurrezione locale contro la gestione globale. Della presenza riguadagnata sull’assenza a sé. Sull’estraneità cittadina, imperiale. Riguadagnata col furto, la frode, il crimine, l’amicizia, l’inimicizia, la cospirazione. Tramite l’elaborazione di modi di vita che siano anche dei modi di lotta.
Politica dell’aver luogo.
L’Impero non ha luogo.
Amministra l’assenza facendo planare ovunque la minaccia palpabile dell’intervento poliziesco. Chi cerca nell’Impero un avversario con cui misurarsi troverà l’annientamento preventivo. Essere percepiti ormai è essere vinti.

Chi vorrebbe rispondere all’urgenza della situazione con l’urgenza della sua reazione contribuisce solo ad aumentare il soffocamento. Una tale modalità di intervento implica il resto della sua  politica, della sua agitazione. Per quanto ci riguarda, l’urgenza della situazione ci libera solo da ogni pensiero di legalità o di legittimità, pensieri divenuti in ogni caso impraticabili. Che sia necessaria una generazione per costruire in tutto il suo spessore un movimento rivoluzionario vittorioso non ci fa esitare. Lo prendiamo con serenità. Proprio come consideriamo con serenità la natura criminale della nostra esistenza e dei nostri gesti.

Correre dietro ai movimenti. sentire ad ogni colpo la propria potenza solo al prezzo di ritornare ogni volta a un’impotenza di fondo. Pagare ogni campagna a caro prezzo. Lasciarle consumare tutta l’energia di cui disponiamo. E poi affrontare la successiva, ogni volta più  ansimanti, più sfiniti, più sconsolati. E poco a poco, a forza di rivendicare, di denunciare, diventare incapaci di cogliere ciò che si suppone stia alla base del nostro impegno, la natura dell’urgenza che ci  attraversa. L’attivismo è il primo riflesso, la risposta conforme all’urgenza della situazione  attuale. La  mobilitazione continua in nome dell’urgenza, prima di sembrare un mezzo per combatterli, è quello cui padroni e governi ci hanno abituati. Forme della vita scompaiono ogni giorno, specie animali o vegetali, esperienze umane e quante possibili relazioni tra forme viventi e forme di vita. Ma il nostro senso dell’urgenza non è legato tanto alla velocità di queste sparizioni quanto alla loro irreversibilità, e più ancora alla nostra incapacità di ripopolare il deserto. L’attivista si mobilita contro la catastrofe. Ma non fa che protrarla. La sua fretta  consuma quel poco di mondo che resta. La risposta dell’attivista all’urgenza rimane all’interno del regime dell’urgenza, senza nessuna speranza di uscirne o di interromperlo. L’attivista vuole essere ovunque. Si reca ovunque lo porti il ritmo dei guasti della macchina. Ovunque egli apporta la sua inventiva pragmatica, l’energia festosa della sua opposizione alla catastrofe. Incontestabilmente l’attivista  si muove  ma non si dota mai degli strumenti necessari a pensare come fare. Come  fare a intralciare  concretamente l’avanzata del deserto per costituire qui ed ora mondi abitabili. Noi disertiamo l’attivismo, senza dimenticare ciò che ne costituisce la forza: una  certa presenza nella situazione. Una certa facilità di movimento al suo interno. Un modo di concepire la lotta non in termini morali o ideologici, ma tecnici e tattici.

Conclusioni

Non c’è un’«identità rivoluzionaria». Sotto l’Impero il fatto rivoluzionario è, al contrario, la non-identità, è il continuo tradimento dei predicati che ci affibbiano a essere rivoluzionario. Di «soggetti rivoluzionari» non ce ne sono più da tempo tranne che per il potere. Divenire qualunque, divenire impercettibili, cospirare significa distinguere tra la nostra presenza e ciò che siamo per la rappresentazione, per metterla in scacco. Nella misura in cui l’Impero si unifica e la nuova configurazione delle ostilità assume un tratto oggettivo, c’è una necessità strategica di sapere cosa siamo per esso, ma prenderci per questo – per un black bloc, per un Partito immaginario o altro – sarebbe la nostra perdita. Per l’Impero, il Partito immaginario è solo la forma della pura singolarità. Dal punto di vista della rappresentazione, la singolarità come tale è l’astrazione compiuta, l’identità vuota dell’hic et nunc. Allo stesso modo, dal punto di vista dell’omogeneo, il Partito immaginario sarà semplicemente l’«eterogeneo», il puro non rappresentabile.

A rischio di togliere il lavoro agli sbirri, dobbiamo guardarci dal credere di poter far altro che indicare il Partito immaginario quando compare, ad esempio descriverlo, identificarlo, localizzarlo su un territorio o definirlo come un segmento della «società». Il Partito immaginario non è uno dei termini
della contraddizione sociale, ma il fatto che c’è della contraddizione, l’irriducibile alterità del determinato di fronte all’universalità onnivora dell’Impero. Ed è solo per l’Impero, ovvero per la rappresentazione, che il Partito immaginario esiste in quanto tale, cioè in quanto negativo. Far indossare a ciò che gli è ostile le vesti del «negativo», della «contestazione» o del «ribelle», è soltanto una tattica usata dal sistema della rappresentazione per trascinare sul proprio piano di inconsistenza, foss’anche a costo dello scontro, la positività che gli sfugge. L’errore principale di ogni sovversione risiederà allora nel feticismo della negatività, nel vincolarsi alla potenza della propria negazione come se fosse l’attributo che le è più proprio, laddove è ciò che più deve all’Impero e alle sue strategie di riconoscemiento. Tanto il militantismo quanto il militarismo trovano in questo il loro unico sbocco desiderabile: nello smettere di comprendere la nostra positività, che è tutta la nostra forza e ciò di cui si è portatori, dal punto di vista della rappresentazione, ovvero come ciò che è derisorio. E ovviamente, per l’Impero, ogni determinazione è una negazione.

Anche oggi, risponde alla stessa logica il fatto che le canaglie diventino sbirri: per neutralizzare il Partito immaginario rivoltando una delle sue frazioni contro le altre. La nozione di plebe sarà spiegata da Foucault quattro anni dopo in un’altra intervista. «Certamente non dobbiamo concepire la “plebe” come il fondo permanente della storia, il fine ultimo di tutte le dominazioni, il focolaio mai estinto di ogni rivolta. Non c’è alcuna realtà so- ciologica della “plebe”. Ma c’è sempre qualcosa, nel corpo sociale, nelle classi, nei gruppi, negli stessi individui che in qualche modo sfugge alle relazioni di potere; qualcosa che non è la materia prima più o meno docile o inerte, ma che è il movimento centrifugo, l’energia inversa, la via di fuga. “La” plebe non esiste, ma c’è “della plebe”. C’è della plebe nei corpi e nelle anime, negli individui, nella borghesia, ma con un’estensione, delle forme, delle energie, delle irriducibilità diverse. Questa parte di plebe non è tanto l’esterno delle relazioni di potere quanto piuttosto il loro limite, il loro rovescio, il loro contraccolpo; è ciò che risponde a ogni carica del potere con un movimento di sottrazione; è ciò che motiva ogni nuovo sviluppo delle reti di potere. […] Assumere il punto di vista della plebe, che è quello del rovescio e del limite rispetto al potere, è dunque indispensabile per
fare l’analisi dei suoi dispositivi».

Il “cittdino” vuole il biopotere senza la polizia, la comunicazione senza lo spettacolo, la pace senza per questo dover fare la guerra

Come fare? è la domanda dei bambini perduti. Quelli a cui non è stato detto. Quelli che hanno gesti insicuri. A cui niente è stato regalato. Quelli la cui creaturalità e la cui erranza non smettono di tradirsi. La rivolta che viene è la rivolta dei bambini perduti. Il filo della trasmissione storica è stato rotto. Anche la tradizione rivoluzionaria ci lascia orfani. Il movimento operaio soprattutto. Il movimento operaio che si è capovolto in strumento di un’integrazione superiore al Processo. Al nuovo Processo cibernetico di valorizzazione sociale. Nel 1978, è in nome suo che il Pci, il «partito dalle
mani pulite», lanciava la caccia all’autonomo. In nome della sua concezione classista del proletariato, della sua mistica della società, del rispetto del lavoro, dell’utile e della decenza. In nome della difesa delle «conquiste democratiche» e dello Stato di diritto.

E oggi?

Come fare? è la pratica dello sciopero umano. Lo sciopero generale lasciava intendere che c’era uno sfruttamento limitato nel tempo e nello spazio,
un’alienazione parcellare dovuta a un nemico riconoscibile, e dunque vincibile. Lo sciopero umano risponde a un’epoca in cui i limiti tra il lavoro e la vita si sbiadiscono definitivamente. In cui consumare e sopravvivere, produrre dei «testi sovversivi» e far fronte agli effetti più nocivi della civiltà industriale, fare sport, fare l’amore, essere genitore o stare sotto Prozac. Tutto è lavoro. Perché l’Impero gestisce, digerisce, assorbe e reintegra
tutto ciò che vive. Anche «quello che sono», la soggettivazione che non smentisco hic et nunc, tutto è produttivo.
L’Impero ha messo tutto al lavoro. Idealmente il mio profilo professionale coinciderà con quello del mio volto. Anche se non sorride. Le smorfie dei ribelli si vendono bene, dopo tutto. Impero vuol dire che i mezzi di produzione sono diventati dei mezzi di controllo nello stesso momento in cui si avverava l’inverso. Impero significa che ormai il momento politico domina il momento economico.
E contro questo lo sciopero generale non può nulla.

Quello che bisogna opporre all’Impero è lo sciopero umano. Che non attacca mai i rapporti di produzione senza attaccare al tempo stesso i rapporti affettivi che li sostengono. Che mina l’economia libidinale inconfessabile, restituisce l’elemento etico – il come – rimosso in ogni contatto tra i corpi neutralizzati. Lo sciopero umano è lo sciopero che là dove non ce lo si aspetterebbe, a tale o talaltra reazione prevedibile, a tale o talaltro tono contrito o indignato, preferisce di no. Sfugge al dispositivo. Lo satura o lo fa esplodere. Si riprende preferendo altro.
Altro che non è circoscritto nei possibili autorizzati dal dispositivo.
Allo sportello di tale o talaltro servizio sociale, alle casse di tale o talaltro supermercato, in una conversazione di circostanza, in un intervento degli sbirri, secondo il rapporto di forza, lo sciopero umano fa prendere consistenza allo spazio tra i corpi, polverizza il double bind di cui sono prigionieri,
li lega alla presenza. C’è tutto un luddismo da inventare, un luddismo di meccanismi umani che fanno girare il Capitale.

PS.

Più un regime di verità biopolitica pretenderà apertura alla libertà, più sarà poliziesco e, delegando alla polizia il compito di reprimere le insubordinazioni, più lascerà i suoi soggetti in uno stato di relativa incoscienza, di quasi-infanzia. In compenso, in un regime di verità biopolitica in cui si pretende di realizzare la libertà senza metterne in discussione la forma, si esigerà da chi vi partecipa di introiettare la polizia nel proprio bios, con il potente pretesto che non c’è altra scelta.

Non si veda una contraddizione nell’accostamento dell’avanguardia del capitalismo all’avanguardia della sua contestazione: sono entrambe prigioniere dello stesso principio economico, della stessa ansia di efficacia e di organizzazione pur situandosi su due terreni diversi. In realtà si servono della stessa modalità di circolazione del potere, e perciò sono politicamente vicine.

Meno una comunità ha la percezione della propria esistenza, più ha bisogno di attualizzare esteriormente il proprio simulacro, nell’attivismo, nelle riunioni costrittive e, infine, nella continua e metastatica messa in discussione di sé. L’instancabile autocritica collettiva, a cui si dedicano sempre più visibilmente sia il management d’avanguardia che i gruppi di neo-militanti informali, dimostra ampiamente la decisiva debolezza della loro
percezione di esistere.

Gli esseri non fanno accadere l’evento, ma l’attendono da spettatori. E in questa attesa la loro vita si dissangua in un attivismo che dovrebbe occupare il presente e provarne l’esistenza, fino all’esaurimento. Più che di passività, occorrerebbe parlare di inerzia agitata.

Col pretesto «di non farsi comprare», ci si vieta di capire che siamo già stati comprati per restare là dove siamo. La resistenza, qui, diventa ritenzione: la vecchia tentazione di incatenare…

E anche le principesse incarcerate nelle loro torri sanno che l’arrivo dei principi azzurri è solo il preludio alla segregazione coniugale, che ciò che serve è abolire in un sol colpo le prigioni e i liberatori, che ciò di cui ab-
biamo bisogno non sono programmi di liberazione ma pratiche di libertà.

La crisi non sarebbe servita unicamente a rendere artificialmente rara la merce – per farne di nuovo un oggetto di desiderio – la cui abbondanza aveva prodotto un eccessivo disgusto nei suoi riguardi. Ma soprattutto, la crisi avrebbe consentito di ottenere di nuovo l’identificazione dei “cittadini” con la totalità sociale minacciata, la cui sorte sarebbe dipesa dalla buona volontà di ciascuno. Nella «politica dei sacrifici», nell’appello a «stringere la cinghia» e nel «comportiamoci in modo responsabile», non c’è altro.

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