I filistei della cultura che ieri credevano nel progresso, nell' interrotta elevazione delle masse, e nella massima felicita' del massimo numero, oggi, senza rendersene conto, credono esattamente nel contrario: nella revoca dei principi del 1789, nell' incorreggibilita' della natura umana, nell' impossibilita' antropologica della felicita', ma solo per concludere, in ultima istanza, che gli operai stanno fin troppo bene. La profondita' dell' altro ieri si e' capovolta in estrema banalita'.
La societa' che si cristallizza secondo leggi anonime viene rappresentata come se, in essa, la buona volonta' bastasse a rimediare a tutto , essa viene cosi' difesa anche nell' attacco piu' onesto. L' estrema ingiustizia diventa falsa immagine della giustizia: la degradazione degli uomini il simbolo della loro uguaglianza. Ma i sociologi si trovano difronte alla questione ferocemente comica: dov'e il proletariato? (…)
L' idea di un fare scatenato, di un produrre ininterrotto, di un' insaziabilita' sbuffante , della liberta' come superattivita', attinge a quel concetto borghese che ha servito sempre e soltanto a sancire la violenza sociale come immodificabile, come un pezzo di sana eternita'. E' in questo e non nel preteso <livellamento> , che i progetti positivi del socialismo, condannati da Marx, restavano immersi nelle barbarie.(…) Forse la vera societa' provera' disgusto dell' espansione e lascera' liberamente inutilizzate certe possibilita', invece di precipitarsi, sotto un folle assillo, alla conquista delle stelle.
Ad un' umanita' ignara dell' indigenza balenera' qualcosa della follia e dell' inutilita' di tutti i provvedimenti che erano stati presi per sfuggire all' indigenza, e che, con la ricchezza, la riproducevano su piu' vasta scala. Lo stesso godimento sarebbe toccato da questa trasformazione, dal momento che il suo schema attuale e' inseparabile dal darsi da fare, pianificare, ottenere quel che si vuole e sottomettere gli altri. Rien faire un béte, giacere sull' acqua e guardare tranquillamente il cielo, <essere e nient' altro, senz' altra determinazione e realizzazione> potrebbero sostituire processo, azione e compimento, e adempiere cosi' sul serio alla promessa della logica dialettica, di sfociare nella propria origine. (T.W.Adorno)
Caro S.B. e tu per lui, in occasione del 1 maggio, che io sia un cittadino di serie B e’ un dato di fatto, che io non aspiri ad essere un cittadino e’ anch’ essa una certezza.
Della “citadinanza” si puo’ fare come il metadone in astinenza vi si ricorre come rimedio chimico alla sete di giustizia come di vita. Le crisi d’ astinenenza in un senso come nell’ altro non sono un bell’ argomento per la verita’.
La cittadinanza e’ come il prozac costa meno dell’ eroina, piu’ del metadone, ma non per questo va’ messo nella dichiarazione dei diritti dell’ uomo per quel che vale dinnanzi alla classe media.
I contenuti del movimento e della lotta di classe negli anni ’70 come sempre li ha determinati l’ esperienza vissuta e i bisogni e i desideri di milioni di sfruttati.
Che la teoria stesse al passo fu un merito e anche un’ arma fino a quando non la si gioco a fare le avanguardie: il gioco di quelli che vedono lontano ma che sbattendo il pugno sul tavolo dei ribelli gia’ osannavano i padroni di domani.
Di fatti da italia uno all’ autonomia del politico il passo e’ breve.
L’ operaio massa e’ un risultato del “ragionamento” “condiviso” mentre la classe (ma sara’ una classe?) prodotta dal ragionamento sul postfordismo non e’ molto condivisa.
Il ragionamento produce tante cose.
Produce il soggetto politico.
Il ragionamento ha questa straordinaria forza di produrre il soggetto politico.
Oppure il ragionamento non ha questa forza di “schematizzare” allora il soggetto non c’e e allora-l’ alora dell’ allora della lotta di classe- non c’e confronto con lo stato e con il capitale.
Il ragionamento e’ lo sforzo di fare degli sfruttati un “soggetto politico”.
Gli sfruttati che in forza del ragionamento non finiscono a fare i soggetti politici sono cattivi di natura, per forza.
Ricomporre il pensiero.
Per dire?
Il potere delle macchine e’ il potere del capitale…i frammenti dei grundrisse…
Capire, capire certo ma cosa? le articolazioni concrete del dominio.Punto.
Gli operai alla catena di montaggio a furia di ripetere certe operazioni finivano col prestarci poca attenzione e allora-appunto allora- cominciavano a pensare troppo.
Piu’ pensavano e meno la produttivta’ saliva piu’ le macchine si inceppavano.
Poi vennero i computer che disciplinarono il pensiero: i lavoratori furono cosi impegnati a pensare a quello che facevano che non pensarono piu’.
Il cervello fini alla catena di montaggio.
Ma la catena di montaggio in versione digitale libero’ i corpi per il fine settimana e fu’ considerata uno strumento di liberazione per questo.
Non che si dovesse rovresciare la logica di questa eterea macchina in grado di isolare e contemporaneamente concentrare a profitto il lavoro..no! assolutamente no che la macchina non aprrezza l’ operaismo o al massimo strizza l’ occhio al suo spirito e alla sua logica. Allora…
Che la macchina digitale corresse dove gli operai fuggivano dal lavoro di fabbrica inseguendo la liberta’ questo e’ un dettaglio.
Prima venne la macchina e poi la fuga operaia dalla disciplina del lavoro fordista.
La macchina venne fatalmente dal progresso tecnologico a modificare la genetica dei comportamenti operai e non furono certo le diserzioni di massa dal lavoro fordista a far venire la macchina.
La medusa se ne venne con i suoi chip per capello prima che gli operai si mettessero ad inceppare sfasciare le macchine, prima che cominciassero ad ignorarle a vantaggio della loro vita.
Non furono gli stili di vita-sic! gli stili di vita…-non furono i comportamenti-sic! i comportamenti non la lotta di classe contro lo sfruttamento e cioe’ contro il lavoro salariato a portare la macchina-medusa ma al contrario essa venne per dare valore al cpitale umano.
Per fare il cittadino, cioe’ il fesso contento, nel mercato postfordista bisogna spendere il doppio per riprodursi come forza lavoro e portare la propria pellaccia alla conceria universale.
E allora?
Cos’e i costi di produzione e riproduzione della forza-lavoro sono cresciuti smisuratemente?
Se ne devono far carico gli sfruttati o lo stato?
La domanda e’ cruciale per restare nel recinto del mercato.
La “specifica di cittadinanza” …la “specifica di cittadinanza”??
ma quale cazzo di “specifica di cittadinanza”!!!
Ah embeh! e’ tutta colpa dei rapporti di forza.
Ma non e’ il sogno trasformato in incubo?
Quante volte si e’ sognata la fuga dal lavoro ripetitivo, di massa, di fabbrica?
Il capitalismo alla fine accontenta tutti, statene certi.
Voi fuggivate dal lavoro in-creativo e la fuga gia’ vi veniva incontro con la sua flessibilita’ a mezzo macchine digitali.
E allora?
Allora cari e piccoli operai c’e la famiglia a difendervi dal meccanismo perverso della macchina-mostruosa della formazione infinita.
Se non avete famiglia potete sempre farvi un “sistema di pensiero”.
Beh! allora…!
Una volta si voleva fare a pezzi il capitale ma mo’ ci accontentiamo di prendere a pugni il sistema di formazione delle competenze che pero’ non contano un cazzo per il fatto che la “competenza” e’ un’ ideolgia per giustificare la mano divina di una gerarchia sociale tanto impenetrabile quanto inattaccabile.
E allora? allora ripartiamo da questa nuova classe-non-classe e dal web perche’ qui si capisce quanto nella merda della precarieta’ siamo finiti quasi come dovessimo sognrre da un incubo all’ altro di tornare alle antiche, vecchie, buone e rassicuranti certezze da schiavi di un tempo.
Che questa sia la societa’ del capitale significa che il lavoro e’ il centro determinante e irradiante della cittadinanza, pace all’ anima sua, e dei diritti sociali!
E allora? Allora il problema e’ che qualcuno continua a guardare i film di Ken loach e non che ci sono ancora quattro vetero tristi che aspettano i cosacchi a piazza navona.
L’ intellighenzia comunista..il vecchiume…Ahhh! non parlatemi dei sindacati, buoni quelli!!
Noi invece con gli araldi della postmodernita’ al fianco ci mettiamo a pensare a nuove tutele , a nuove forme di riscatto..di rappresentanza?
conforme-conforme alla nuova condizione dello sfruttamento…
Oh perbacco in tutto questo nuovismo sindacale l’ operaismo e’ conservativo.
Sic! l’ operaismo blocca col suo retaggio l’ azione politica…sic!
L’ azione politca!? o l’ azione sindacale?
Anche noi vogliamo il nostro Di Vittorio!!
Basta che riconoscano la nostra natura di precari a tempo indeterminato e il piu’ e’ fatto.
Che il capitale socializzato al suo massimo grado puo’ fluttuare a piacere nella frammentazione della produzione immediata e’ imporre attraverso mediazioni infinite il suo comando diventa un buco nero del ragionamento.
Le “macchine dialoganti” che permettono di allungare la misura della catena e la socializzazione del capitale suonano come nella vecchia nomenclologia comunita dei Barca: il privilegio della rendita sul capitale produttivo!! sic sic sic!!!!
E dovevamo fare tutta questa strada per menare la croce addosso alla rendita’ finanziaria a favore del capitale produttivo?
Che in questo malsano paese il capitale umano si vende male…
Qual’e il problema vero?
Quei quattro idioti che s’ immedesimano con vecchie simbologie!
Attenzione-attenzione!!!
Col pretesto di fare a fette i kamikaze dell’ immaginario lamentoso terzomondista pauperista alla fine si arriva alle loro stesse conclusioni…
Paradossi della teoria…
Quindi largo alla centralita’ della crisi della classe media o o forza di analisi marxiste-marxiste o a forza di populismo; cosi’ e se vi pare…
Alleatevi con la classe media?
No anzi voi siete la nuova classe media!!!
Anzi bisogna riportare il lavoro al primo posto dell’ agenda politica…
E ci siamo arrivati…
Sottolineo che il caro S.B. dopo tanta analisi e tanta sottigliezza da futurista contro la melma terzinterzionalista- di cui io mai feci parte non so lui-arriva a urlare la solita schifosa parola di merda: lavoro!!!
Non il reddito : “mettere il lavoro al primo posto nella negoziazione con gli
enti locali. E’ una battaglia che potrebbe raddrizzare il Paese..”
A parte che io non voglio raddrizzare il paese- gia’ lo disse qualcun’ altro metaforicamente, ma non solo…voglio reddito non migliori condizioni di schiavo…
Me fotte na’ sega dell’ interesse generale!
del lavoro!
Prima il reddito poi il lavoro!!
Scusi poi, operaista a chi?
Uscire dal vicolo cieco!
(in occasione della Mayday 07 a Milano)
Il movimento contro i rapporti di lavoro precari, contro
l’insicurezza, per avere diritti uguali per tutti i cittadini, sembra
riesca soltanto a manifestare disagio, a mobilitare protesta, ma non a
cambiare lo stato delle cose. Troppi sono gli ostacoli che impediscono
di fare passi avanti. L’attuale Governo e la politica del suo
Ministero del Lavoro è uno di questi, ma non meno insidiosi sembrano
gli ostacoli interni al movimento stesso.
Il pericolo che un’intera generazione sia condannata ad un’esistenza
da cittadini di serie B è reale. Nei media e nei discorsi ufficiali si
diffondono inviti alla rassegnazione dicendo che questa condizione è
generalizzata a tutto l’Occidente capitalistico. In realtà se questo è
vero – ed è purtroppo vero – costituisce una ragione di più per essere
preoccupati e cercar di reagire.
Avere coscienza di sé come classe
E’ opinione abbastanza condivisa che il fordismo ha prodotto l’operaio
massa. In base a questa percezione si sono costruiti i ragionamenti
politici che hanno dato un contenuto ai movimenti sociali degli Anni
60 e 70. Non è altrettanto chiaro, o comunque altrettanto condiviso,
il ragionamento sulla classe prodotta dal postfordismo. Molti
tentativi di definire i contorni di questa classe sono stati fatti e
sono in corso, non ultimo quello di definirla come “non classe”. Ma
finché non si riesce a trovarne un profilo adeguato, che abbia la
stessa chiarezza, schematicità, evidenza e capacità di comunicazione
che ha avuto il termine di “operaio massa”, ogni sforzo per farne un
soggetto politico con cui Governo e capitale debbono confrontarsi sarà
inutile.
Ricomporre un sistema di pensiero
Quello che viene definito “operaismo italiano” è stato forse l’unico
sistema di pensiero che ha cercato di mettere ordine nella percezione
dei rapporti di classe del dopoguerra. Ripercorriamo per un momento la
strada che ha battuto per arrivare a definire il soggetto di classe
del fordismo, l’operaio massa. Il punto di partenza è stato lo sforzo
di comprensione dei cambiamenti tecnologici e organizzativi del
capitalismo. Come le macchine ed il loro uso trasformavano, plasmavano
gli uomini che ricevevano un salario per azionarle e controllarle.
Primo passo, capire le macchine e la loro capacità di mutamento
genetico dei comportamenti umani. Secondo passo, capire il governo
politico di questo processo, trovare coerenza tra azioni di governo,
amministrazione pubblica e trasformazioni tecnologico-organizzative
del lavoro salariato. Terzo passo: riconosciuti i lucchetti che ti
serrano le mani, imparare a farli saltare uno a uno. Un percorso
analogo oggi è impraticabile? Proviamo a imitarne la sequenza, chissà
che da qualche parte non ci porti. Primo passo: uso capitalistico
delle macchine.
Il genere umano adatto al computer
Assumiamo che la tecnologia-simbolo del fordismo sia la catena di
montaggio e la tecnologia-simbolo del postfordismo il computer.
Richiedono due razze diverse di forza lavoro. La prima una forza
lavoro che, anche se scolarizzata, deve soltanto adattare i propri
bioritmi a quelli della macchina, esserne una funzione, un componente.
La seconda una forza lavoro che, anche se non scolarizzata, deve
possedere competenze, conoscenze e saper interagire con la macchina.
Nel fordismo abbiamo una potenza tecnologica che soggioga e disciplina
la forza lavoro, nel postfordismo uno strumento tecnologico che
dialoga con la forza lavoro, nel fordismo l’uomo – per paradosso –
ridotto a scimmia, nel postfordismo l’uomo tutto cervello. La
liberazione nel primo caso passava per il rovesciamento dei rapporti
con la macchina (il ritmo lo decido io e non la catena, il cottimo
individuale va abolito, la tecnologia non va accettata come tale ma
modificata, prima la salute e poi la produttività, i salari
tendenzialmente uguali per tutti ecc. ecc.). Erano i primissimi passi
per riacquistare dignità umana e diventare soggetto politico. Non è lo
stesso percorso che si presenta nel postfordismo, il computer è – può
essere – liberazione. I percorsi sono molto più complessi e per
individuarli dobbiamo abbandonare l’operaismo. Anzi, può diventare un
ostacolo. Ed in effetti oggi il revival dell’operaismo, che avviene in
coincidenza con il quarantennale della pubblicazione dell’opera di
Mario Tronti “Operai e capitale”, avviene in un contesto che rafforza
le posizioni di coloro che sono i principali avversari di una
liberazione del precariato, come cercheremo di dimostrare. Noi
dobbiamo difendere lo spirito, la logica dell’operaismo originario,
non la moda operaista di oggi.
I mutamenti genetici indotti dal postfordismo
Utilizziamo il termine “mutamento genetico” in senso figurato ma non
troppo. I fenomeni che inducono un mutamento dei comportamenti
sociali, delle abitudini e degli stili di vita hanno un’importanza che
possiamo considerare maggiore di quella che potrebbe ottenersi con
mutamenti indotti nell’organismo umano. Il primo grande salto che
compie il postfordismo rispetto al fordismo è l’attribuzione di valore
al capitale umano, alle conoscenze/competenze. Questo comporta una
prima “specifica di cittadinanza”, intendendo per specifica i
requisiti richiesti per essere cittadino in un mercato del lavoro
postfordista. Sono requisiti costosi, perché significano un
investimento consistente – in termini di tempo e di denaro – nella
cosiddetta formazione. Per accedere al mercato del lavoro occorre
essere dotati di un consistente bagaglio formativo, in modo da
attestare frequenze da inserire in quei curricula che si allungano in
proporzione agli anni di precariato. Anya Kamenetz è una giornalista
di 25 anni del Village Voice ed ha appena pubblicato un libro,
Generation Debt, dal sottotitolo “Perché oggi è terribile essere
giovani”. L’argomentazione è molto semplice: la stragrande maggioranza
dei giovani americani esce dagli studi con tanti debiti sul collo
(contratti per pagarsi gli studi) che ne restano condizionati al
momento di entrare nel mercato del lavoro, e rendono le condizioni
lavorative – che si deteriorano sempre di più – ancora più dure.
Insomma sono già fottuti prima di cominciare. Questa non è ancora la
situazione in Europa ma ci stiamo arrivando. La “specifica di
cittadinanza” richiesta dal postfordismo ha prodotto un gonfiamento
abnorme e mostruoso della cosiddetta “offerta formativa”; centinaia di
scuole, di corsi, di master che ci assordano con le loro proposte,
sono oggi appannaggio del mercato privato, ma presto sarà la scuola
pubblica a presentarsi come un brand, a fare marketing, come stanno
già facendo alcune università italiane, che si strappano gli studenti
a forza di promesse di corsi brevi o di corsi facili, talune
abbassando i prezzi, altre alzandoli in modo da creare nella clientela
l’effetto “lusso” (“se costa tanto vuol dire che è buona”). E’ il
postfordismo che ha inventato il lifelong learning, quel micidiale
meccanismo per il quale il giovane si convince che il suo precariato
non dipende da rapporti di forza tra le classi ma dalla sua
insufficiente formazione, quindi più rimane disoccupato o sottoccupato
e più studia. Non è un caso che le forze maggiormente responsabili
della precarizzazione di massa richiedano a gran voce investimenti
nella formazione. I Sindacati hanno beneficiato in questi ultimi
vent’anni di finanziamenti europei di notevole entità per la
formazione, risorse con cui avrebbero potuto essere finanziati
ammortizzatori sociali mirati. Risultato zero. In parallelo a questa
frenesia del mercato della formazione si è andata svolgendo
l’involuzione del sistema scolastico, mentre l’Università ha
continuato ad essere governata e organizzata in base alle esigenze dei
docenti e non in base ai bisogni degli studenti. Pertanto il
postfordismo o la cosiddetta knowledge economy hanno prodotto la
superfetazione di un mercato della formazione pubblica e privata la
cui sola funzione ormai è quella di produrre un essere umano che è un
precario prima ancora di entrare nel mercato del lavoro e che solo per
eufemismo viene chiamato “uomo flessibile”. Il postfordismo in tal
modo ha trasformato una condizione lavorativa – che per sua
definizione è modificabile in base a un rapporto di forza – in una
caratteristica genetica. Il precariato non deve nascere solo al
momento dell’incontro con il mercato del lavoro, deve essere
costitutivo della mentalità della persona, deve essere inoculato nella
persona come percezione del sè.
L’obsolescenza delle competenze
Si dovrebbe cominciare a difenderli sin da piccoli i nostri figli da
questa macchina infernale che si chiama formazione, tanto più quanto
maggiore è il pericolo che crescano “schermodipendenti” (display della
tv di casa, del telefonino, del videogioco, del computer). Mai
l’autoformazione è stata così importante per aiutarci a vivere e a non
restare schiacciati dal mercato della formazione. Mai un sistema di
pensiero indipendente, scaturito dalla necessità primordiale di
sopravvivere e di non farsi sommergere dalla marea formativa che sale
ogni giorno di più, è stato tanto necessario come oggi.
L’ideologia perversa del lifelong learning, la credenza che le
competenze accumulate sono sempre insufficienti, come se fossero
quelle e non i rapporti tra le classi che impediscono un’occupazione
stabile, trovano tuttavia una giustificazione, una base di realtà, nel
fatto che effettivamente nel postfordismo l’innovazione tecnologica,
soprattutto a livello d’informatica, è rapida e uccide ogni giorno
posti di lavoro per obsolescenza. Nel fordismo questi passaggi, per
cui interi gruppi professionali venivano messi fuori gioco, non erano
così frequenti, tant’è che, ogniqualvolta accadeva, il fatto era
riportato con enfasi epica o tragica dai libri di storia (es.
l’espulsione dei “camalli” in seguito all’introduzione del
container). Oggi è storia quotidiana, è un fenomeno strutturale. Ma
proprio per questo richiederebbe interventi mirati, politiche di
compensazione specifiche. Oppure una gestione delle risorse destinate
alla cosiddetta “riqualificazione” interamente sottratta alle forze
che sono le principali responsabili della precarizzazione.
Cosa significa avere un proprio sistema di pensiero
Uno dei fattori che ha contribuito a rendere politicamente “forte” il
sistema di pensiero operaista agli inizi degli Anni 60 è stato il
fatto di aver guardato a fondo nella natura del taylorismo e del
fordismo, di averlo studiato nel suo paese di origine, gli Stati
Uniti. La cultura italiana ed europea dell’epoca infatti ne sapeva ben
poco. Il taylorismo ed il fordismo erano arrivati con dieci, quindici
anni di ritardo in Europa, in Paesi come l’Italia e la Germania erano
arrivati con i regimi fascisti. La cultura “industriale” del PCI e del
PSI di quei tempi aveva idee piuttosto vaghe sul fordismo, era una
cultura “produttivista”, completamente condizionata dall’antifascismo,
cioè da problematiche di tipo istituzionale. Le durissime condizioni
di lavoro nell’industria italiana degli Anni 50 – per i ritmi
ossessivi e la disciplina da caserma della fabbrica – venivano
ricondotte al riemergere di mentalità fasciste e autoritarie. Il
taylorismo veniva guardato come strumento di innalzamento della
produttività che ben aveva funzionato in Unione Sovietica. C’era
dunque un grande gap culturale tra gli operaisti ed il resto della
Sinistra.
Oggi noi viviamo analoga situazione. La cultura industriale italiana –
e quindi anche quella della Sinistra, che non si discosta nemmeno di
un millimetro da quella di Confindustria – non sa e non vuol sapere
quel che veramente è accaduto negli Stati Uniti con la new economy, le
dot.com e tutto quell’insieme di iniziative e di avvenimenti che hanno
prodotto una vera e propria rivoluzione negli Anni 90, prima e dopo
l’avvento del web. Soprattutto non hanno capito che quella rivoluzione
ha avuto anche dei connotati anticapitalistici ed è stata condotta
all’insegna del rifiuto dei modelli disciplinari e produttivi delle
big corporations, in uno spirito libertario, anticonformista, e con un
chiaro senso di rivolta contro il sistema della formazione così come
viene offerto dalle business schools e dalle big universities. Veniva
esaltata l’autoformazione, quella che una volta si chiamava
l’autodidattica. I main frame della IBM erano chiamati “i Lager
dell’informazione”. E’ da questo spirito che è nato il movimento per
l’open source, da qui provengono i gruppi ancora attivi degli
“informatici per la democrazia”, che vigilano sui pericoli di
privatizzazione del web. Qui si è formata quella nuova classe che i
guru del management come Drucker chiamano knowledge workers, sociologi
come Florida creative class o economisti e politici come Robert Reich
“analisti di simboli”. Hanno sognato un nuovo mondo, un nuovo modo di
lavorare, di fare impresa, un diverso modo di definirsi, né blue
collar né white collar, tant’è che uno come Andrew Ross, cronista
egregio della loro storia, li ha chiamati no-collar. Poi sono stati
risucchiati dalla finanza e stritolati dalla crisi del 2000/2001 – ma
quale rivoluzione nell’Occidente capitalistico non viene risucchiata e
stritolata?
Ci siamo stufati di Ken Loach
E’ dalle vicende di questa web class – passatemi il neologismo – che
bisogna ripartire per capire a fondo la natura del postfordismo e la
sua capacità di rendere strutturale la condizione di lavoro precaria.
Pochi in Italia conoscono questa storia e ancor meno hanno cercato di
ragionarci su, per tirarne fuori un pensiero politico. La “Shake” agli
inizi degli Anni Novanta lo ha fatto (non è stata la sola), lo hanno
fatto quelli che hanno inventato la Mayday, ma i loro ragionamenti non
sono diventati patrimonio comune né della Sinistra né di una parte
consistente dei movimenti, i quali continuano ancora ad attardarsi nel
celebrare i funerali della classe operaia. Non solo, ma la sconfitta
dell’operaio massa (sconfitta relativa peraltro) invece di un monito
viene assunta a paradigma politico. I modelli di lavoro del fordismo –
in particolare il contratto di lavoro subordinato – invece di essere
superati nel diritto e nelle politiche del lavoro, con uno sforzo
d’innovazione che vada incontro al precariato e lo riconosca come
forma generale, vengono cristallizzati come unici modelli che danno
accesso al sistema di tutele. Nei loro stampi vengono ficcati a forza
i precari, i parasubordinati, i lavoratori autonomi di seconda
generazione, tutto il lavoro postfordista. Belle le storie di lavoro
raccontate da Ken Loach, ma inchiodate ancora al mito di una classe
operaia che fu, storie di nostalgia che guardano indietro e mai in
avanti e ricordano terribilmente quelle del neorealismo italiano:
mentre i contadini meridionali diventavano operai di fabbrica e
formavano il reparto di punta dell’operaio massa, i registi italiani
continuavano a raccontare storie di terre aride e di donne in nero,
inzuppate di pathos similgreco e di retorica meridionalista – che
mandavano in solluchero l’intellighentsia comunista ed a molti di noi
facevano solo toccare ferro.
Per dire che è ora di finirla con questa riproposizione di una storia
finita della classe operaia (mostrata guarda caso sempre da “simpatica
perdente”) ed è invece urgente focalizzare il lavoro postfordista, le
sue problematiche, le sue possibilità di riscatto, è indispensabile
trovare nuovi criteri di tutela delle condizioni lavorative che non
rientrano nel contratto-tipo del lavoro subordinato, nuovi
ammortizzatori sociali, nuovi incentivi – che compaiono, pur
timidamente, anche nel programma elettorale di Segolène Royal in
Francia. In questo senso si diceva che il revival operaista di oggi
può essere un fattore di conservazione e di blocco dell’agire
politico.
Il precariato come il morbillo ovvero c’è di peggio della legge Biagi
Varrebbe la pena seguire il percorso dell’intellighentsia di Sinistra
nell’occultare la natura del lavoro nel postfordismo. La prima
percezione che qualcosa stava cambiando la ebbe dieci anni fa quando
si accorse che c’era un po’ di occupazione “atipica” o “non standard”,
come dicono a Bruxelles. Sociologi di vaglia cominciarono ad occuparsi
di strani esseri umani, i co.co.co.. Furono fatte dal sindacato le
prime inchieste e saltò fuori che erano più di due milioni in Italia.
Il problema del lavoro “atipico” dunque non era marginale, ma
coinvolgeva il 10% della forza lavoro. A questo si aggiungevano i
lavoratori autonomi di seconda generazione, ma di questi ci si
sbarazzò subito dicendo che non erano lavoratori ma “imprese”, “ditte
individuali”, e pertanto di competenza di Confindustria. Intanto era
giunto al potere Berlusconi e il suo Ministero del Lavoro, con la
consulenza iniziale di Marco Biagi, diede una veste istituzionale al
lavoro “atipico”, compiendo un primo passo importante nel
riconoscimento che il postfordismo stava cambiando il mondo del lavoro
e che a partire da questi mutamenti andava costruita una nuova
politica del diritto e della contrattualistica. Ma l’astuta talpa
dell’intellighentsia di Sinistra continuava a lavorare per ridurre il
problema dei lavori “atipici” ad un problema marginale. I due milioni
e passa di co.co.co. vennero ridotti a 400.000 da analisi statistiche
più attente, che depurarono i dati INPS dalle mancate cancellazioni e
scartarono i co.co.co. titolari di pensione o di altre occupazioni. Al
tempo stesso, sempre con statistiche alla mano, fornite dai dati ISTAT
della Rilevazione continua delle forze di lavoro, altri valenti
sociologi annunciavano al mondo che il lavoro autonomo era in
diminuzione (trascurando il fatto che era in diminuzione quello
tradizionale, il lavoro contadino e del piccolo commercio, mentre
quello di seconda generazione era in forte ascesa). Così il problema
del postfordismo, che abbiamo visto implica una trasformazione molto
complessa degli assetti capitalistici, veniva praticamente ridotto a
problema marginale e il precariato a problema fisiologico. Si
trattava, secondo queste menti eccelse, di un periodo transitorio
della vita lavorativa di ognuno di noi (il periodo del “flusso”),
destinato rapidamente ad estinguersi e passare poi al periodo
dell’occupazione stabile (il periodo dello “stock”) e sicura per tutta
la vita. Insomma il precariato come malattia infantile, come il
morbillo, la scarlattina. Si giunge così al governo Prodi ed al
Ministero Damiano, con il quale ogni traccia di ragionamento sul
lavoro postfordista viene azzerata. L’unica idea di lavoro è quella
che corrisponde alla fattispecie del contratto di lavoro a tempo
indeterminato; il precario, l’atipico, il non standard sono
riconosciuti solo come “figure di passaggio”, fanno parte
dell’effimero del mercato del lavoro; scompariranno quando entreranno
nella forza lavoro stabile, nello “stock” di forza lavoro. Vengono
aumentate le aliquote contributive però. Effimeri come cittadini
lavoratori ma non come cittadini contribuenti. In questo quadro, tra
l’altro, l’unica azione di governo concreta in favore del precariato
non può che essere quella all’interno dell’impiego pubblico,
immettendo in ruolo un po’ di lavoratori a tempo determinato
dell’Amministrazione pubblica. Sul mercato privato nulla può il
governo, a meno di introdurre una nuova legislazione del lavoro. Di
fronte a questa sequenza inquietante, a questo rifiuto di voler
percorrere strade nuove per fenomeni nuovi – sia nel sistema delle
tutele fondamentali che nel sistema degli ammortizzatori sociali – la
vituperata “legge 30” rischia di fare bella figura. Anche nella sua
versione maroniana infatti, questa legge ha rappresentato un
riconoscimento dell’esistenza di una fattispecie lavorativa diversa
dal modello standard. A suo modo, forse in maniera maldestra, ha
cercato di inserire elementi di tutela, ha legittimato per la prima
volta il lavoro postfordista ed il precariato come fenomeno
strutturale – non come fenomeno passeggero (un “flusso”), quale
vogliono farlo apparire gli attuali uomini di Governo ed i loro
consiglieri. La legge Biagi non ha peggiorato la condizione di
precarietà, ha cercato di formalizzarla. Il “pacchetto Treu” dei
precedenti governi di centro-sinistra, quello sì, aveva dato via
libera ai processi di flessibilizzazione selvaggia nel mercato del
lavoro. Pertanto aver scelto la “legge Biagi” come obbiettivo di fondo
di una lotta contro il precariato sembra la classica riedizione delle
imprese di Don Chisciotte contro i mulini a vento. Bene o male la
“legge 30” prende atto che le posizioni di lavoro “atipiche” sono una
componente costante, la cultura ministeriale attuale le considera come
l’acne giovanile. Ed alle donne (soprattutto) e agli uomini che sono
invecchiati a furia di contratti di co.co.co., temporanei, stages,
partite Iva e altri espedienti per vivere, sa dire soltanto “pagate
troppo poche tasse”!
I grandi numeri ovvero le misure della Signora Italia
A leggere ed ascoltare il discorso pubblico si ha la sensazione spesso
che il ceto politico non abbia ben presente com’è fatto il Paese, che
gli mancano i grandi numeri. Ogni tanto ricordarli vale la pena,
soprattutto se vogliamo avere un’idea del lavoro postfordista. Il 47%
della forza lavoro del settore di mercato pari a 7.683.000 persone,
lavora in imprese al di sotto dei 10 dipendenti e di queste 6.179.000
lavorano in imprese che non superano in media i 2,7 dipendenti (dati
Istat, ottobre 2006). Se ci aggiungiamo circa 1 milione di persone che
lavora in imprese che non superano i 15 dipendenti, abbiamo un
esercito di circa 8 milioni e mezzo di persone su un totale di 16
milioni e mezzo che non è tutelato dall’articolo 18 dello Statuto dei
Lavoratori. Pertanto anche il contratto di lavoro a tempo
indeterminato rappresenta un sistema di totale sicurezza del lavoro
per meno del 50% della forza lavoro occupata nel settore di mercato
(cioè escluso il settore pubblico). Quindi il mercato del lavoro
italiano – se escludiamo per ora il settore pubblico e parapubblico –
ha già un elevato grado di flessibilità nell’ambito dei rapporti di
lavoro a tempo indeterminato. Su questo substrato si innesta il
precariato vero e proprio.
Ma guardiamolo meglio questo substrato, perché non riusciremo mai a
capire la natura del precariato se non abbiamo chiaro il terreno su
cui si forma. Piaccia o non piaccia, il vero “buco nero” di questo
substrato è rappresentato da quei 6 milioni e passa di persone che
lavorano in imprese il cui numero medio di dipendenti non arriva
nemmeno a tre. Perché è un “buco nero”? Per due ragioni di fondo. La
prima è che un organismo che ha meno di tre dipendenti non può essere
chiamato “impresa”. Anche chi ha letto solo un Bigini di economia sa
che l’impresa è un’istituzione costituita da tre figure o ruoli
sociali distinti: il capitale, il management e la forza lavoro. Nelle
imprese familiari capitale e management s’identificano. Una struttura
composta da nemmeno tre persone viene chiamata “impresa” solo per
ragioni ideologiche, cioè per voler inquadrare nella borghesia
capitalistica quello che è invece il variegato universo del lavoro
autonomo con un elementare grado di organizzazione, fenomeno antico ma
esploso proprio in coincidenza del diffondersi di rapporti
postfordisti. Quei 6 milioni 179 mila sono infatti rappresentati in
parte dalle cosiddette “ditte individuali” (altro termine assurdo e
mistificatorio) ed in parte da lavoratori autonomi che hanno uno o due
(virgola sette) dipendenti – assunti spesso con contratti di lavoro a
tempo indeterminato. La seconda ragione di fondo per cui questo è il
vero “buco nero”, è rappresentata dal fatto che questo universo e
quello immediatamente continguo, cioé l’universo delle imprese al di
sotto dei 10 dipendenti, è quello che crea la maggiore domanda di
lavoro, è quello che tiene alta la dinamica occupazionale. Le imprese
medio-grandi infatti, in particolare quelle 2010 imprese che formano
il nocciolo duro del capitalismo italiano analizzate nella ricerca di
Mediobanca del 2006 – ricerca che chiunque voglia farsi un’idea
veritiera del sistema capitalistico italiano dovrebbe sapere a memoria
– nel decennio 1996/2005 hanno ridotto ininterrottamente gli occupati.
Ma non basta. In Italia, dopo che i sindacati hanno firmato lo
sciagurato accordo sul costo del lavoro del luglio 1993, per dieci
anni i salari pubblici e privati sono rimasti quasi fermi, circostanza
che non si è verificata in nessun altro Paese dell’Unione Europea.
Malgrado questo blocco dei salari, le imprese hanno continuato a
decentrare, a subappaltare, a esternalizzare, a restringere sempre più
l’area del core manpower ed a ingrossare l’area della microimpresa o
del lavoro autonomo con un elementare grado di organizzazione. Il
blocco dei salari avrebbe dovuto indurre le imprese a ingrandirsi, ad
assumere più gente “in pianta stabile”, a investire in ricerca e
innovazione. Invece è avvenuto il contrario: sempre più frammentati,
sempre più piccoli, sempre più fragili, sempre più low tech. I corifei
di Confindustria chiamano questa roba “capitalismo molecolare”. Ma
piantatela! Questi sono milioni di persone che lavorano in condizioni
precapitalistiche, che non hanno mai avuto un soldo in prestito da una
banca mentre l’azienda che fino all’altroieri è stata di Tronchetti
Provera ha 43 miliardi di euro di debiti con le banche (86 mila
miliardi di vecchie lire!) ed a tutti – tranne Beppe Grillo, grazie al
cielo – sembra normale. Sono milioni di persone che non hanno mai
goduto dei benefici e dei sussidi previsti per le imprese – sono
cosiddette “microimprese” prive di capitali e di sussidi (la Cassa
Integrazione è un sussidio per l’impresa), che vivono del loro solo
capitale umano, cioè del know how e delle risorse d’iniziativa delle
persone che ci lavorano. E’ qui che si concentrano gli orari di lavoro
più lunghi. Malgrado questa posizione di assoluta inferiorità nel
mercato, è questo universo che traina l’occupazione in Italia. Le
imprese che accumulano profitti in misura mai toccata nella storia – è
sempre la ricerca Mediobanca a documentarlo – danno un contributo
modestissimo all’occupazione o addirittura contribuiscono a ridurla.
Il capitalismo in Italia va proprio storto, la conformazione
capitalistica italiana è un’anomalia. Ma chi ne fa le spese? Il
capitale umano naturalmente, le competenze, le conoscenze. Lo scorso
novembre, parlando agli studenti dell’Università di Roma, il
Governatore della Banca d’Italia ha dichiarato:
“Dalla metà dello scorso decennio la produttività del lavoro aumenta
in Italia di un punto percentuale l’anno meno che nella media dei
paesi dell’OCSE. Questo fenomeno è alla radice della crisi di crescita
e di competitività che il Paese vive. (….) Vi si è aggiunto però un
deterioramento delle condizioni di efficienza complessiva del sistema
economico. Lo sintetizza la recente riduzione del livello di
produttività totale dei fattori, caso unico tra i paesi
industriali”(la sottolineatura è mia).
La produttività del lavoro, com’è noto, cresce nella misura in cui il
capitale umano, cioè l’intelligenza e la competenza delle persone, il
loro sforzo fisico, l’erogazione di energia lavorativa umana, si
combinano con il capitale fisso rappresentato da tecnologie,
macchinari, sistemi organizzativi, infrastrutture di rete materiali e
immateriali ecc.. Il sistema capitalistico italiano o lascia
completamente abbandonato a se stesso il capitale umano, addossando
sulle sue spalle gli interi costi di riproduzione e privandolo di
capitale fisso (appunto l’universo delle cosiddette “microimprese” –
che io preferisco chiamare l’universo del lavoro autonomo con un
minimo grado di organizzazione) oppure concentra le risorse
finanziarie in imprese che impiegano poco capitale umano, nelle
imprese cioè dei settori a bassa tecnologia, che sono caratteristici
della specializzazione produttiva del Paese e di gran parte dei
cosiddetti, esageratamente esaltati, “distretti industriali”. Ma non
basta. Il sistema capitalistico italiano non solo è un sistema low
tech ma è un sistema nel quale la rendita prevale sul profitto. Le
grandi imprese italiane non sono quelle dei settori competitivi del
mercato mondiale, “maturi” o meno che siano – auto, chimica,
elettronica, editoria ecc. – ma quelle che godono di posizioni di
monopolio, di posizioni di rendita (ENI, ENEL, Telecom, Autostrade,
banche, assicurazioni ecc.), sono imprese in qualche modo “protette”.
E se ci sono imprese in grado di competere a livello internazionale in
settori avanzati, è più probabile che siano pubbliche, come
Finmeccanica (armi) o Fincantieri (navi da crociera) che private.
Sono 192.111 al 31 dicembre 2006 i lavoratori italiani che hanno contratto una malattia professionale che ha provocato loro una disabilita’ grave o gravissima riconosciuta dall’INAIL e indennizzata con una rendita permanente; un dato di grandissimo allarme, se si considera che si tratta del 22,3% di tutte le rendite pagate dall’Inail e che il dato sale ad oltre il 25% se si considerano le 41.157 rendite in pagamento alle vedove ed agli orfani deceduti per malattia professionale al 31 dicembre 2006.
Nelle statistiche sulle “morti bianche” vengono conteggiati solo gli infortuni sul lavoro e mai anche le morti da malattia professionale, che ci fanno invece constatare come i morti per causa di lavoro ogni anno non sono i circa 1.300 di cui si parla ma anche i 200 che rimangono nell’oblio, i caduti per malattia che portano a 1.500 persone il tributo di sangue che i lavoratori italiani pagano
nel 2006 rallenta in Italia il calo degli infortuni. Rispetto alla consistente flessione registrata nel 2005 rispetto al 2004 (-2,8%), infatti, l’anno scorso il calo si è ridimensionato all’1,3%. Il triangolo padano è in termini assoluti l’area geografica con il maggior numero di infortuni (più di 400mila casi, pari al 43,6% del totale). Se però si considera il rapporto tra infortuni denunciati e numero complessivo di addetti, secondo i dati dell’Inail, gli indici più alti si registrano in Umbria, Friuli Venezia Giulia, Emilia Romagna e Puglia. Un passo indietro anche pe ril numero delle “morti bianche”. Con tutta probabilità, affermano dall’Inail, le morti sul lavoro del 2006 supereranno quota 1.300, tornando ai livelli del 2004 (quando si registrarono 1.328 decessi). Nel 2006, a livello nazionale sono stati denunciati 1.280 casi mortali e il loro numero è destinato ad aumentare una volta conclusa la procedura di accertamento e definizione. Il 50% dei casi mortali si registra nel Centro-Sud. Gli infortuni che avvengono nel Centro-Sud sono caratterizzati da livelli di gravità più elevati anche se nel 2006 – con 230 morti – è la Lombardia la regione con il numero più alto di infortuni mortali, seguita da Emilia Romagna (119) e Veneto (116). Più casi mortali nelle costruzione e tra le donne che lavorano nei servizi, mentre agricoltura e dipendenti statali confermano il calo del 2005. Prosegue, invece, la tendenza al ribasso degli infortuni “in itinere’’, cioé durante il tragitto di andata e ritorno dall’abitazione al posto di lavoro.
È donna un lavoratore infortunato su quattro. Alla riduzione degli infortuni del 2006 hanno contribuito esclusivamente gli uomini (-1,7%), mentre tra le lavoratrici si registra una sostanziale stabilità (-0,1%). Ma l’occupazione femminile nel 2006 è cresciuta in misura più sostenuta (+2,5%, rispetto al +1,5 dei lavoratori maschi).
Tra i lavoratori extracomunitari il dato del 2006 non conferma la battuta d’arresto rilevata nel 2005 (+3,7% di infortuni rispetto al 2005 e +25,2% rispetto al 2002). Le comunità più colpite continuano a essere quella marocchina, albanese e rumena senz’altro per la concentrazione dei lavoratori in mansioni e settori di attività a rischio elevato di infortunio, e a livelli di formazione, di preparazione e di esperienza generalmente inferiori a quelli dei colleghi.
27/04/2007 MORTI SUL LAVORO, SECONDO ILO SONO 2MILIONI OGNI ANNO
Sono 2 milioni e 200 mila le persone che ogni anno, in tutto il mondo, perdono la vita per cause connesse al lavoro. Lo afferma un rapporto dell’Ilo, l’ufficio internazionale del lavoro. Secondo lo studio, diffuso in occasione della giornata mondiale della sicurezza, sono inoltre 270 milioni ogni anno i lavoratori che si feriscono, e 160 milioni quelli che soffrono di malattie professionali.
Sorrento – 1 maggio 2007
Il braccio della gru di un cantiere a Sorrento è caduto oggi, provocando la morte di due passanti e il ferimento di quattro operai, di cui uno in modo grave.
Lo ha riferito la polizia di Napoli, precisando che l’incidente è avvenuto in piazza Sant’Antonino a Sorrento, nei pressi della sede del comune.
Le vittime sono due donne, suocera e nuora, della costiera sorrentina: Claudia Frattoruso di 86 anni e Teresa Reale di 57, ha spiegato la polizia, che in precedenza aveva riferito che poteva trattarsi di due turiste.
Secondo le prime ricostruzioni, il braccio della gru — dotata di una sorta di balconcino da cui gli operai stavano applicando le luminarie per preparare il paese alla tradizionale festa dei contadini — è crollato, provocando il ferimento di quattro lavoratori.
Solo uno degli operai, di 32 anni, è giudicato in condizioni molto gravi ed è stato trasferito al Cto di Napoli per importati lesioni alla cassa toracica.
L’incidente cade proprio durante la festa dei lavoratori del primo maggio, quest’anno dedicata alla sicurezza dopo che nelle settimane scorse si sono registrate diverse vittime per infortuni sul posto di lavoro.
Oggi il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha esortato a fare di più per la sicurezza dei lavoratori, ricordando che gli incidenti mortali sono in media tre al giorno per un totale di mille all’anno.