l) Lo stabilirsi di una riflessivita’ e di una capacita’ di attivita’ deliberata richiede un’importante e relativa labilita’ degli investimenti. Questa labilita’ non va’ confusa con una qualche fluidita’ ne’ con cio’ che Freud ha definito <<sostituibilita’>> dell’oggetto della pulsione: e’ semplicemente il contrario dell a rigidita’. Ora, una certa rigidita’ degli investimenti sublimati e’ caratteristica della quasi totalita’ delle societa’ umane, e potremmo dire che e’ la migliore caratterizzazione, dal punto di vista psicoanalitico, della loro eteronomia.
L’investimento di un credente nel suo Jahveh, nel suo Cristo o Allah, di un membro del Partito nazionalsocialista nel Fuhrer o di un membro del Pcus nel Segretario generale, o di uno scienziato nel carattere ereditario dell’intelligenza (credenza che lo porta a manipolare i dati) non e’ labile. Quello di un cittadino che puo’ e vuole discutere la fondatezza di una legge a cui nel frattempo obbedisce, o quello dello scienziato critico, lo sono. Orbene, cio’ non dipende dall’essere umano singolo, e questo vale almeno in due sensi. Innanzitutto, non e’ mai il singolo che ha scritto alla sommita’ dell’edificio sociale: la legge e’ fatta da noi, anziche’: Dio ci ha dato la legge. Poi, non e’ lui che si e’ educato da solo in modo da non riconoscere nessuna autorita’ suprema che non debba render conto e ragione dei suoi atti e della sua esistenza; sono altri che l’hanno educato a questo atteggiamento, e costoro erano gia’ stati formati a questo.
altro presupposto della riflessivita’ …e’ la capacita’ effettiva di mettere in discussione, in funzione della riflessione, gli oggetti investiti finora (fossero pure, al limite, le regole del pensare) e di agire di conseguenza secondo i risultati di tale riflessione. Cio’ equivale alla capacita’ di mettere in discussione gli oggetti istituiti. Anche questa capacita’, per quanto <<soggettiva>>, dipende dal modo e dal contenuto dell’istituzione sociale di quegli oggetti. E’ psichicamente inconcepibile il poter dire: la legge e’ ingiusta, se la legge e’ stata data da Dio e la giustizia non e’ altro che uno dei nomi-attributi di Rio (lo stesso vale per lo Zar).
m) l’autonomia non ha niente a che vedere con un <<adattamento>> qualsiasi allo stato di cose presente, ma e’ proprio il contrario, perche’ significa precisamente la capacita’ di mettere in discussione quell’ordinamento, che-fondato su una sublimazione che rispetta le significazioni istituite- sarebbe scarsamente minacciato da una esplosione di <<desideri>> per definizione inarticolati e inarticolabili, o dalla fantomatica apparizione sulla scena sociale del <<soggetto dell’inconscio>>.
E’ evidente che stiamo parlando di possibilita’ dell’essere umano.
L’individuo sociale, livello <<socialmente funzionale>> dell’essere umano, presenta certo i caratteri du <<per se’>>, e’ fabbricato dalla societa’ (attraverso la famiglia, l’educazione, il linguaggio e via dicendo) a partire dal materiale psichico, ma e’ <<separato>> dalle altre istanze psichiche mediante la barriera della rimozione. La sua estensione e’ assimilabile a quella del <<conscio>> della prima topica freudiana, ed esso e’ capace di <<pensiero>> e di <<volizione>> (nel senso dell’attivazione da parte del conscio dei meccanismi motori) entro l’orizzonte dell’istituito. Ma, in via generale (se si considera tutta l’estensione della storia e delle societa’ umane) non e’ in grado di mettere in discussione questo orizzonte; non possiede la riflessivita’ nel senso rigoroso e forte del termine – e di conseguenza, neanche la capacita’ di attivita’ deliberata come l’abbiamo definita prima-, caratteristica di cio’ che si deve chiamare soggettivita’ umana. Va’ detto che quest’ultima e’ una creazione storica relativamente recente (la rottura che la crea ha luogo nell’antica Grecia). Esa e’ dunque una virtualita’ di ogni essere umano, non certo una fatalita’. La storia recente e contemporanea mostra spaventosi esempi di massa, in cui le ultime tracce di riflessivita’ e volonta’ propria che esseri umani possono possedere sono ridotte a zero dall’istituzione sociale (politica). Proprio in quanto diventa soggettivita’, l’essere umano puo’ mettersi in discussione e considerarsi come origine, certo parziale, della sua storia passata, e anche come volonta’ di una storia avvenire di cui vuol essere coautore. Certo, lo sottolineo, il semplice <<conscio>> e’ lungi dal riuscirvi: si puo’ perfettamente concepire un conscio che resti mero spettatore, che registri solo i processi che si svolgono nella vita dell’individuo. Senza una tale soggettivita’ (senza il <<progetto>>, che pero’ e’ gia’ in via di realizzazione, di una tale soggettivita’) non soltanto ogni obiettivo di verita’ e di sapere crolla, ma scompare qualsiasi forma di etica, perche’ svanisce ogni responsabilita’.
piu’ oltre, l’unita’ piu’ o meno solida dell’individuo costruito dalla societa’, vi e’ un’unita’ presa di mira e che dobbiamo prendere di mira, quella della rappresentazione riflessa di se’ e delle attivita’ deliberate che s’intraprendono. Naturalmente unita’ qui non vuol dire in alcun modo invarianza nel corso del tempo.
il mondo accessibile della soggettivita’ umana non e’ dato una volta per tutte…l’interazione autentica con altre soggettivita’ significa qualcosa di inaudito nel mondo: il superamento dell’esteriorita’ reciproca. questo superamento della reciproca esteriorita’ e’ in gioco quando si tratta di comprendere e di accedere alla dimensione del senso in quanto invisibile.
Se qualcuno ci dicesse che si tratta pur sempre di esteriorita’ reciproche tra esseri umani; che ci adattiamo reciprocamente come magnetofoni costruiti per questo; che mentre uno fa finta di parlare, gli altri fan finta di capire e di credere che quel che dice ha senso; che, per esempio, amare e’ voler dare quello che non si ha a qualcuno che non lo vuole, e cosi’ via – gli risponderemmo, innanzitutto e prima di tutto, che senza dubbio la nostra idea di cio’ che ha senso ci impedisce di far finta di dialogare con un magnetofono, e che dunque lo lasceremmo grachiare nel suo cantuccio. Pero’ tra noi aggiungeremmo che questo tale non solo ripete banalita’ filosofiche che s’aveva il diritto di sperare di archiviare da venticinque secoli, ma disconosce requisiti essenziali della teoria psicoanalitica. Perche’ in questo ambito, l’idea che non c’e’ mai tra umani superamento delle reciproche esteriorita’ implica necessariamente che non potra’ mai esservi nello sviluppo dello psichismo, una vera introiezione: qualsiasi introiezione sarebbe una costruzione totalmente <<introproiettiva>> (spostare-proiettare i propri sentimenti e parti di se’ su altri soggeti o oggetti-"paranoico"), tutto cio’ che il bambino introietterebbe ( incorporare sentimenti, atteggiamenti e pensieri altrui-"empatia") sarebbe dovuto esclusivamente al bambino e la madre non c’entrerebbe affatto: si tratterebbe dunque di mera proiezione che il bambino illusoriamente reincorporerebbe. Senoche’ questa e’ solo meta’ della realta’: il bambino trasforma quel che gli si da’, o quel che trova, attribuendogli un senso, che pero’ non e’ senza relazione con il senso di cio’ che gli s’e’ dato. Non c’e bambino che non sappia fare la differenza tra uno sguardo carico di amore e uno sguardo carico di odio. Anzi, e’ proprio a questa condizione che si impara a parlare, accettando cio’ che la significazione di una parola sia quella che gli altri le attribuiscono.
In conclusione-ed ecco il punto piu’ difficile- qualsiasi messa in discussione delle leggi e delle condizioni della chiusura della soggettivita’ ha ancora luogo nella chiusura, nella sfera chiusa d’altre leggi e altre condizioni, per quanto enormemente allargata possa essere. Esser soggetto, ed essere soggetto autonomo, e’ ancora esser qualcuno e non tutti, qualcuno e non uno qualsiasi, qualcuno e non qualunque altra cosa. Esser soggetto e’ inoltre e soprattutto investire oggetti determinati e investire la <<propria>> identita’, la rappresentazione di se’ come soggetto autonomo.
n) Appena ieri si celebrava la morte dell’uomo e la fine del soggetto. Secondo i gazzettini piu’ recenti, quelle notizie erano un tantino esagerate. Autentico redivivo, il soggetto sarebbe di nuovo tra di noi. I discorsi sulla morte dell’uomo e la fine del soggetto non sono mai stati altro che una copertura pseudoteorica della fuga di fronte alla responsabilita’: dello psicoanalista, del pensatore, del cittadino. Allo stesso modo, le infiammate proclamazioni di oggi sul ritorno del soggetto, cosi’ come preteso <<individualismo>>, mascherano la deriva della decomposizione in un’altra delle sue forme.
Il soggetto non sta’ tornando, semplicemente perche’ non era mai partito. E’ stato sempre qui, non certo pero’ come sostanza, ma come problema e come progetto…
S’e’ voluto scomporre il soggetto umano in due modalita’ che, pur essendogli apparentate, non ne toccano affatto l’essenziale. Per un verso, se si considera il per se’ in quanto semplice processo autocentrato e autoconservatore, ma tuttavia <<cieco>> a tutto quello che supera le dimensioni strumentali che dipendono da quelle due finalita’, dunque al limite apparentemente <<meccanizzabile>>, l’essere umano non sara’ <<soggetto>> piu’ di quanto lo e’ il sistema immunitario, che presenta, com’e’ noto, un’ipseita’ assai elevata. Si giunge cosi’ al <<processo senza soggetto>> (grande scoperta!! che cosa e’ mai una galassia se noun <<processo senza soggetto>>??) e alla linea Lèvi-Strauss/Althusser/Foucault. Oppure si pretende di riassorbire interamente il soggetto umano nella dimensione dell’individuo sociale, e in particolare nel linguaggio. Si dira’ allora che e’ perso, perduto, alienato nel linguaggio ( e negli orpelli sociali), che non parla ma che e’ parlato (o, perche’ no che non scrive ma e’ scritto) salvo poi collocare dietro di lui un <<soggetto dell’inconscio>> che in tutta evidenza s’annulla appena e’ pronunciata una parola. E’ la linea Lacan/Barthes/Derrida.
o) L’opposizione individuo/societa’, rigorosamente considerata, e’ di una fallacia totale. Lìopposicione, la polarita’ irriducibile e’ quella tra la psyche e la societa’. Qra, la psyche non e’ l’individuo: la psyche diviene individuo unicamente nella misura in cui subisce un processo socializzazione (senza il quale, del resto, ne’ essa ne’ il corpo che anima potrebbero sopravvivere un solo istante). ..
il sociale e’ tutti e nessuno, cio’ che non e’ mai assente e quasi mai presente come tale, un non-essere piu’ reale di ogni essere, cio’ in cui noi tutti siamo immersi da ogni parte ma che non possiamo mai afferrare in <<carne ed ossa>>. Il sociale e’ una dimensione indefinita, anche se ogni istante circoscritta; una struttura definita e allo stesso tempo in mutamento, oltre tutte le articolazioni, sostiene la loro unita’. E’ cio’ che si da’ come struttura-forma e contenuto indissociabili- degli insiemi umani, un che d’informe che pero’ da’ forma, un sempre piu’ e sempre anche altro. Il sociale e’ cio’ che puo’ incontrarsi solo entro e attraverso l’istituzione, ma che e’ sempre infinitamente piu’ dell’istituzione, poiche’ e’, paradossalmente, cio’ che essa forma, cio’ che ne sovradetermina costantemente il funzionamento e cio’ che, in fin dei conti, la fonda: la crea, la mantiene in esistenza, l’altera, la distrugge. Vi e’ il sociale istituito, ma esso presuppone sempre il sociale istituente: in <<tempi normali>> il sociale si manifesta nell’istituzione, ma tale manifestazione e’ a un tempo vera e in qualche modo fallace, come mostrano i momenti in cui il sociale istituente irrompe e si mette in opera a mani nude, cioe’ i momenti di rivoluzione. Ma tale opera mira immediatamente a un risultato cioe’ a darsi di nuovo un’istituzione per esistere in essa in modo visibile; e non appena questa istituzione e’ posta, il sociale istituente sfugge, si mette a distanza e’ gia’ altrove.
p) un altro in me.
L’inconscio e’ il discorso dell’Altro. L’inconscio e’ fondamentalmente il precipitato degli intenti, dei desideri, degli investimenti, delle esigenze, delle attese, insomma delle significazioni di cui l’individuo e’ stato oggetto, fin dal suo concepimento o addirittura da prima, da parte di coloro che l’hanno generato ed allevato. Ne consegue, come implicazione dell’autonomia, che il mio discorso deve prendere il posto del discorso dell’Altro, d’un discorso estraneo che e’ in me e mi domina, che parla attraverso di me. Questa delucidazione indica immediatamente la dimensione sociale del problema.
Ma qual’e’ questo discorso dell’Altro, non piu’ nelle sue origini, ma nella sua qualita’? E fino a che punto puo’ essere eliminato? La caratteristica essenziale, dal punto di vista che qui ci interessa, e’ quale rapporto intercorre tra il discorso dell’Altro e l’immaginario. Il punto e’ che, dominato da questo discorso, il soggetto si prende per qualcosa che non e’ (che in ogni caso il soggetto non e’ necessariamente per lui stesso): ne consegue che gli altri ed il mondo intero subiscono per il soggetto un travestimento corrispondente. Il soggetto non si dice, ma viene detto da qualcuno, esiste quindi come parte del mondo di un altro (certamente a sua volta travestito). Il soggetto e’ dominato da un immaginario, che viene vissuto come piu’ reale del reale, anche se non e’ saputo come tale. L’essenziale dell’eteronomia -o dell’alienazione nel senso generale del termine- alivello individuale. e’ la dominazione da parte di un immaginario autonomizzato che si arroga la funzione di definire per il soggetto tanto la realta’ quanto il suo desiderio…
L’autonomia non consiste in una <<presa di coscienza>> effettuata una volta per sempre, ma in un <<altro rapporto>> tra conscio e inconscio, tra lucidita’ e funzione immaginaria, in un altro atteggiamento del soggetto verso se stesso, in una modifica profonda del miscuglio attivita’-passivita’, del segno sotto cui essa si effettua, del posto rispettivo dei due elementi che lo compongono. …L’autonomia non e’ quindi delucidazione senza residui ne’ eliminazione totale del discorso dell’Altro ne suo essere ignorato come tale, ma instaurazione di un altro rapporto tra il discorso dell’Altro ed il discorso del soggetto…L’autonomia non significa l’eliminazione pura e semplice del discorso dell’altro, ma la rielaborazione di questo discorso, in modo che l’altro non sia materiale indifferente ma importi per il contenuto di cio’ che dice: solo cosi’ diventa possibile un’azione inter-soggettiva non piu’ condannata a restare vana o a contrastare con la sua semplice esistenza cio’ che e’ stato presupposto come suo principio. In mancanza di cio’ non potrebbe esserci una politica della liberta’ e si sarebbe costretti a scegliere tra il silenzio e la manipolazione o ci si dovrebbe ridurre alla magra consolazione del <<dopo tutto l’altro fara’ quel che vorra’>>. E’ solo per questo in definitiva sono responsabile di quanto dico e di quanto taccio.
Infine l’autonomia, cosi’ come l’abbiamo definita, porta direttamente al problema politico e sociale. La concezione dell’autonomia che abbiamo delineata mostra che non si puo’ volere l’autonomia senza volerla per tutti e che la sua realizzazione non puo’ concepirsi appieno se non come impresa collettiva…un problema e’ un rapporto sociale.
q) L’alienazione trova le sue condizioni, oltre l’inconscio individuale e il rapporto inter-soggettivo che vi si gioca, nel mondo sociale. Oltre il <<discorso dell’altro>>, vi e’ quel che lo carica di un peso irremovibile che limita e rende quasi vana ogni autonomia individuale. E’ quel che si manifesta come massa di condizioni di privazione e di oppressione, come struttura solidificata globale materiale e istituzionale, di economia, potere e ideologia, come mistificazione, manipolazione e violenza.
Nessuna autonomia individuale puo’ superare le conseguenze di questo stato di cose, annullando gli effetti sulla nostra vita della struttura oppressiva della societa’ in cui viviamo. (l’idea di autonomia e di responsabilita’ di ognuno nei riguardi della propria vita possono facilmente diventare delle mistificazioni se li si astrae dal contesto sociale e le si considera risposte autosufficienti). L’alienazione, l’eteronomia sociale, non si manifesta semplicemente come <<discorso dell’altro>>, anche se quest’ultimo vi svolge un ruolo decisivo in quanto determinazione e contenuto dell’inconscio e del conscio della massa degli individui. Ma al suo interno l’altro scompare nell’anonimato collettivo, nell’impersonalita’ dei <<meccanismi economici del mercato>> o della <<razionalita’ del Piano>>, della legge di pochi presentata come la legge e basta. E, parallelamente, quel che rappresenta l’altro non e’ piu’ un discorso: e’ una mitragliatrice,, e un ordine di mobilitazione, una busta-paga e merci costose, una decisione di tribunale e una prigione. L’ <<altro> e’ ormai <<incarnato>> altrove rispetto all’inconscio individuale, anche se la sua presenza per delega nell’inconscio di tutti gli interessati (colui che tiene la mitragliatrice, colui per il quale e colui davanti al quale e’ tenuta) e’ condizione necessaria di questa incarnazione; ma l’inverso e’ ugualmente vero: il fatto che vi siano alcuni che maneggiano mitragliatrici e’ senza dubbio condizione del perpetuarsi dell’alienzazione.
r) Politica: non si tratta delle elezioni comunali, e nemmeno di quelle presidenziali. La politica nel vero senso della parola, e’ la messa in discussione dell’istituzione effettiva della societa’, e’ l’attivita’ che tenta di prender di mira lucidamente l’istituzione sociale in quanto tale….Lo specifico del pensiero e’ volersi incontrare con qualcosa d’altro da se’. Lo specifico della politica e’ voler fare se stessi altro da cio’ che si e’, a partire da se stessi.
da quando esistono, le discussioni sull’uguaglianza come quelle sulla liberta’ sono ipotecate da un’ontologia antropologica, da una metafisica riguardante l’essere umano che fa di questo essere umano- dell’esemplare della specie homo sapiens- un individuo-sostanza, un individuo di diritto divino, o di diritto naturale, o di diritto razionale. Dio, Natura, Ragione- posti di volta in volta come esseri-enti supremi e paradigmatici, fungenti allo stesso tempo da essere e senso…questi fondamenti metafisici dell’uguaglianza tra umani sono in se stessi, insostenibili- e di fatto non se ne sente piu’ parlare. Non si sente piu’ dire che l’esigenza di uguaglianza o l’esigenza di liberta’ si fonda sulla volonta’ di Dio, che ci ha creato tutti uguali, oppure sul fatto che per natura siamo uguali, o che la ragione esige che…
Ed e’ assolutamente emblematico, a questo proposito, che tutte le discussioni contemporanee sui diritti dell’uomo siano segnate da un pudore, per non dire da un imbarazzo, o pusillanimita’ filosofica del tutto sfacciati.
Ma vaa agiunto che questi <<fondamenti>> filosofici o metafisici sono, o diventano nel loro impiego effettivo, piu’ che equivoci. Per via di un qualche slittamento logico o di qualche premessa nascosta, se ne puo’ infatti far discendere tanto la difesa dell’uguaglianza che il suo esatto contrario.
Il cristianesimo, per fare un esempio, in buona teologia, non ha a che vedere se non con un’uguaglianza davanti a Dio, non con un’uguaglianza sociale o politica. E, in buona pratica storica, ha quasi dovunque accettato e giustificato le disuguaglianze terrene. L’eguale statuto metafisico di tutti gli uomini in quanto figli di Dio, promessi alla redenzione, e via di seguito, riguarda la sola faccenda considerata importante: la sorte <<eterna>> delle anime. Il che non dice niente, e non dovrebbe dir niente, sulla sorte degli umani quaggiu’, durante questa infima frazione di tempo intramondano della loro vita, che e’, come direbbe un matematico, di misura nulla dinnanzi all’eternita’…E’ strano vedere, pensatori peraltro seri, voler fare dell’uguaglianza trascendente delle enime, professata dal cristianesimo, il precursore delle idee moderne sull’uguaglianza sociale e politica. Per poterlo fare, dovremmo dimenticare, o cancellare, nel modo piu’ incredibile, dodici secoli di Bisanzio, dieci secoli di Russia, sedici secoli iberici, la santificazione della servitu’ in Europa ( e questo bel vocabolo tedesco per dire servitu’, leibeigenschft, la proprieta’ del corpo: l’anima, evidentemente e’ proprieta’ di Dio), la santificazione della schiavitu’ fuori dall’Europa, le posizioni di Lutero durante la guerra dei contadini- e non aggiungo altro…
Altrettanto equivoche sono, in questo campo, le invocazioni della <<natura>> o della <<ragione>>. E’ emblematico che il solo filosofo greco che si sia applicato a <<fondare>> la schiavitu’ (che per i greci era un semplice fatto, risultato di una disuguaglianza nella forza, e che nessuno aveva tentato di giustificare), Aristotele dico, per far questo invochi simultaneamente la <<natura>> e la <<ragione>>…
Non possiamo ricavare conseguenze politiche da questo genere di argomentazioni (metafisiche o di <<natura scientifica>>).
Apparteniamo ad una tradizione che trae le sue radici dalla volonta’ di liberta’, di autonomia individuale e collettiva- e le due cose sono inseparabili. Noi assumiamo esplicitamente e criticamente questa tradizione attraverso una scelta politica, il cui carattere non delirante e’ dimostrato dai momenti in cui, nella nostra tradizione europea, il movimento verso l’uguaglianza e la liberta’ e’ andato avanti…Questa scelta si traduce, qui, nell’affermazione seguente: vogliamo che tutti siano autonomi, cioe’ che tutti imparino a governare se stessi, individualmente e collettivamente: e nessuno puo’ sviluppare la capacita’ di governarsi se non attraverso la partecipazione, su di una base ugualitaria e in modo uguale, al governo delle cose comuni, degli affari comuni. Certo la seconda affermazione contiene un’importante componente fattuale o <<empirica>>-che tuttavia sembra difficilmente contestabile. Ogni essere umano possiede geneticamente la possibilita’ di parlare- che non serve a nulla se non impara una lingua.
Il tentativo di fondare l’uguaglianza e la liberta’, cioe’ l’autonomia umana, su di un fondamento extrasociale, e’ intrinsecamente antinomico. E’ la manifestazione stessa dell’eteronomia. Se Dio, la Natura o la Ragione hanno decretato la liberta’, come del resto la schiavitu’, allora saremo sempre sottomessi e asserviti a questo presunto decreto.
La societa’ e’ autocreazione. La sua istituzione e’ autoistituzione che fino ad oggi ha occultato se stessa. Tale auto-occultamento e’ precisamente la caratteristica fondante dell’eteronomia delle societa’. Nelle societa’ eteronome, cioe’ nella schiacciante maggioranza delle societa’ che sono esistite fino a questo momento-pressoche’ tutte- si trova, istituzionalmente stabilita e sanzionata, la rappresentazione di una fonte dell’istituzione della societa’ che si troverebbe fuori dalla societa’ stessa: presso gli dei, presso Dio, presso gli antenati, nelle leggi della Natura, nelle leggi della Ragione, nelle leggi della Storia. In altri termini, vi si trova, imposta agli individui, la rappresentazione che la societa’ non dipende da loro, che non possono porre loro stessi la loro legge -questo infatti vuol dire autonomia-, ma questa legge e’ gia’ data da qualcun altro.
La sola dotazioneuniversale degli esseri umani e’ la psiche in quanto immaginazione radicale. Ma questa psiche non puo’ manifestarsi, e nemmeno sussistere e sopravvivere, se non le e’ imposta la forma dell’individuo sociale. E questo individuo e’ <<dotato>> di cio’ di cui di volta in volta lo dota l’istituzione della societa’ a cui appartiene.
Per rendersene conto, e’ sufficiente riflettere a questo macroscopico dato di fatto: nella maggioranza dei casi e nella maggior parte dei tempi storici, l’individuo e’ fabbricato dalla societa’ in modo tale da portare in se stesso l’esigenza della disuguaglianza in rapporto agli altri, e non l’esigenza di uguaglianza. E questo non e’ un caso. Infatti un’istituzione della societa’ che sia istituzione della disuguaglianza corrisponde molto piu’ <<naturalmente>>-anche se qui il termine e’ del tutto fuori posto-alle esigenze del nucleo psichico originario, della monade psichica che portiamo in noi e che, quale che sia la nostra eta’, sogna sempre di essere onnipotente e al centro del mondo. Questa onnipotenza e questa centralita’ in rapporto all’universo evidentemente non sono realizzabili; ma se ne puo’ trovare un simulacro in una minipotenza e nello stare al centro di un piccolo universo. Ed e’ evidente che un correlato fondamentale delle esigenze dell’economia psichica dell’individuo e’ creato e inventato dalla societa’ proprio nella forma della gerarchia sociale e della disuguaglianza.
L’idea di una sostanziale uguaglianza politica e sociale degli individui non e’, e non puo’ essere, ne’ una tesi scientifica ne’ una tesi filosofica. E’ una significazione immaginaria sociale e, piu’ precisamente , un’idea legata ad un progetto politico, un’idea che concerne l’istituzione della societa’ come comunita’ politica. E’ essa stessa creazione storica ed e’ una creazione, se cosi’ si puo’ dire altamente improbabile. Gli europei contemporanei (esssere europeo in questo contesto non vale come caratterizzazione geografica, ma in quanto espressivo d’una determinata forma di civilta’) non si rendono conto dell’enorme improbabilita’ storica della loro esistenza. In rappoerto alla storia generale dell’umanita’, quella storia particolare, quella tradizione-la filosofia, la lotta per la democrazia, l’uguaglianza , la liberta’- sono altrettanto improbabili dell’esistenza della vita sulla terra in rapporto ai sistemi stellari che ci sono nell’universo….
L’esigenza di uguaglianza e’ una creazione della nostra storia, di quel segmento della storia alla quale apparteniamo. E’ un fatto storico, o meglio un meta-fatto che nasce in questa storia e che, a partire da li’, tende a trasformare la storia, compresa la storia degli altri <<popoli>>. E’ assurdo volerla <<fondare>>, in una qualunque eccezione possibile di questo termine, poiche’ e’ questa storia che ci fonda in quanto uomini europei..
Come le idee-le significazioni immaginarie sociali- di liberta’ e di giustizia, l’idea di uguaglianza anima da secoli le lotte sociali e politiche dei paesi europei (nel senso largo che ho appena indicato) e il loro processo di autotrasformazione. Il culmine di questo processo e’ il progetto di instaurazione di una societa’ autonoma: cioe’, d’una societa’ che sia capace di autoistituirsi, dunque di mettere in discussione le istituzioni gia’ date, la rappresentazione del mondo gia’ stabilita; il che significa: d’una societa’ che, pur vivendo sotto delle leggi e sapendo che non puo’ vivere senza legge, non si faccia serva delle sue leggi; d’una societa’, dunque, in cui la domanda: qual’e’ la legge giusta? resti sempre effetivamente aperta. Una tale societa’ e’ inconcepibile senza individui autonomi, e viceversa. E’ una falsita’ grossolana il contrapporre qui, ancora una volta, societa’ e individuo, autonomia dell’individuo e autonomia sociale, perche’, quando diciamo individuo, parliamo di un versante dell’istituzione sociale, e quando parliamo d’istituzione sociale, parliamo di qualcosa di cui l’effettivo portatore, efficace e concreto, e’ la collettivita’ degli individui.
Non ci possono essere individui liberi in una societa’ serva. Ci possono forse essere dei filosofi che riflettono al caldo di una stufa; ma l’esistenza di questi filosofi in quello spazio storico e’ stata resa possibile, perche’ ci sono state prima di loro, delle colletivita’ autonome che hanno creato, insieme , la filosofia e la democrazia.
L’autonomia degli individui, la loro liberta’ (che implica, beninteso, la loro capacita’ di rimettere in discussione se stessi) ha anche e soprattutto quale contenuto l’eguale partecipazione di tutti al potere, senza di che evidentemente non c’e’ liberta’, come non c’e’ liberta’ senza uguaglianza. Come potrei essere libero se altri da me prendessero decisioni relative a quel che mi riguarda escludendomi dal potervi partecipare? E’ necessario affermare con forza, contro i luoghi comuni di una certa tradizione liberale, che c’e’ non antinomia ma implicazione reciproca tra le esigenze della liberta’ e dell’uguaglianza. Questi luoghi comuni che continuano ad aver corso, possono acquisire un’apparente e ingannevole pertinenza solo a partire da una concezione degradata della liberta’, come liberta’ ristretta, difensiva, passiva. Secondo questa concezione, si tratta semplicemente di difendere l’individuo contro il potere: il che presuppone che sia gia’ accettata l’alienazione o l’eteronomia politica, che ci si rassegni dinnanzi all’esistenza di una sfera statuale separata dalla collettivita’, infine che si sia gia’ aderito ad una visionedel potere (o anche della societa’) come <<male necessario>>.
Questa prospettiva, oltre ad esser falsa, rappresenta una degradazione etica mortificante.
Un’altra mostruosa fallacia circola al giorno d’oggi. Si pretende di mostrare che la liberta’ e l’uguaglianza sono perfettamente separabili, e addirittura antinomiche, e s’invoca l’esempio della Russia, dei paesi detti, per antifrasi, socialisti.
Si sente dire: vedete bene come l’uguaglianza totale e’ incompatibile con la liberta’ e va di pari passo con l’asservimento. Come se ci fosse una qualunque forma di uguaglianza in un regime come quello della Russia! Come se in quel regime non ci fosse una frazione della popolazione che viene privilegiata in ogni modo, che gestisce la produzione, che, soprattutto, ha nelle sue mani la direzione del Partito, dello Stato, dell’Esercito e cosi’ via!
E’ vano volere una societa’ demoratica se la possibilita’ di uguale partecipazione al potere politico non e’ trattata dalla collettivita’ come un compito la cui realizzazione la riguarda. ..
Con tutta evidenza, la questione di sapere che cosa implica e esige di volta in volta l’uguale partecipazione di tutti al potere resta aperta. Lungi dall’esser sorprendente, questa e’ l’essenza stessa di cio’ che e’ davvero dibattito e lotta politica. Infatti come la giustizia, come la liberta’, come l’autonomia sociale e indivduale, l’uguaglianza non e’ una risposta o una soluzione che si possa dare una volta per tutte al problema dell’istituzione della societa’. E’ una significazione-un’idea, un valore- che fa nascere questioni e che percio’ non e’ affatto scontata.
s) E’ inutile ricordare l’ipocrisia che regna in questo campo quando si dichiara che tutte le nazioni sono uguali.
Ipocrisia dal punto di vista del bruto e brutale rapporto di forza, delle possibilita’ che certe nazioni hanno di imporre la loro volonta’ ad altre; ma ipocrisia anche nel fuggire di fronte ad un problema assai piu’ sostanziale, assai piu’ difficile dal punto di vista delle idee, del pensiero. Intendo il problema della della necessita’ e dell’impossibilita’ di conciliare quello che scaturisce dalla nostra esigenza di uguaglianza, cioe’ l’affermazione che tutte le culture umane sono, da un certo punto di vista equivalenti; e la constatazione che, da un altro punto di vista, non lo sono affatto, visto che un gran numero di esse negano attivamente ( e in ogni caso nei fatti) tanto l’uguaglianza tra individui che l’idea di equivalenza di culture differenti.
In sostanza, si tratta di un paradosso analogo a quello con cui ci fa scontrare l’esistenza di partiti totalitari in regimi piu’ o meno democratici. Qui il paradosso consiste nella nostra affermazione che tutte le culture hanno uguali diritti: affermazione relativa anche a culture che non ammettono che tutte le culture abbiano uguali diritti e che invece si attribuiscono il diritto di imporre il proprio <<diritto>> agli altri. C’e’ paradosso nell’affermare, per esempio, che il punto di vista dell’Islam vale quanto qualsiasi altro-mentre proprio questo punto di vista dell’Islam sta’ nell’affermare che solo il punto di vista dell’islam ha valore. E noi facciamo altrettanto: affermiamo che solo il nostro punto di vista, secondo cui c’e’ equivalenza fra culture, ha valore- negando con cio’ ila valore del punto di vista, eventualmente <<imperialista>>, di questa o quella diversa cultura.
Esiste, dunque, questa paradossale singolarita’ ddella cultura e della tradizione europee (ancora una volta non in senso geografico), che consiste nell’affermare un’equivalenza di diritto di tutte le culture, mentre le altre culture rifiutano questa equivalenza, e la stessa cultura europea la rifiuta in un certo senso, per il fatto stesso che e’ la sola ad affermarla.
E questo paradosso non e’ semplicemente teorico o filosofico. Esso pone un problema politico di prima grandezza, visto che esistono, e in sovrabbondanza, societa’, regimi, Stati che violano constantemente, sistematicamente e macroscopicamente i principi che noi consideriamo costitutivi di una societa’ umana. Sara’ necessario considerare considerare l’escissione e l’infibulazione delle donne, la mutilazione dei ladri, le torture poliziesche, i campi di concentramento e gli internamenti politici <<psichiatrici>> come particolarita’ etnografiche interessanti delle societa’ che le praticano?
E’ evidente che, come diceva Robespierre, << i popoli non amano i missionari armati>>; e’ evidente che la risposta a questo genere di questioni non puo’ essere data con la forza .; ma e’ anche evidente che simili questioni, sul piano internazionale e mondiale, non soltanto sussistono, ma acquistano attualmente un grado d’importanza che rischia di farsi critico.
A tutte queste questioni dobbiamo, di volta in volta, dare una risposta che non ha e non puo’ avere un fondamento scientifico, una risposta che sia fondata sulla nostra opinione, sulla nostra doxa, sulla nostra volonta’, sulla nostra responsabilita’ politica. E a tale responsabilita’, qualsiasi cosa noi si faccia, tutti egualmente partecipiamo. L’esigenza di uguaglianza implica anche un’uguaglianza delle nostre responsabilita’ nella formazione della nostra vita collettiva. L’esigenza di uguaglianza subirebbe una radicale perversione se riguardasse solo dei <<diritti>> passivi.
Il suo senso e’ anche e’ soprattutto quello di un’attivita’, di una partecipazione, di una responsabilita’ uguali.
da:
1) lo stato del soggetto oggi, 1986-Cornelius Castoriadi
2) il progetto dell’autonomia- C. Castoriadis
3) natura e valore dell’uguaglianza, 1982-C. Castoriadis