Rifiutarsi di comunicare e’ una colpa scriveva Primo Levi. Comunicare il pensiero e i sentimenti e’ necessario affinche l’uomo sia uomo. Finire, come nei campi di concentramento, il "non essere parlati" produce sugli uomini effetti rapidi e devastanti: "la lingua ti si secca in bocca, e con la lingua il pensiero."
Se non hai la fortuna di avere qualcuno con cui parlare finisci nel vuoto e ti collochi nell’ordine della nullita. a La comunicazione genera informazione e senza informazione non si vive.
Nella "Gaia Scienza", F. Nietzsche ricordava che "la coscienza" e il "linguaggio" (insieme alla scienza, alla verita’ ecc…) sono un’espressione tarda dell’evoluzione umana, e rappresentano le possibilita’ specifiche di un organismo di orientarsi nella realta’, di agire e vivere. Sosteneva che "linguaggio" e "coscienza" si sono costituiti sotto la pressione del bisogno di comunicare: l’uomo (l’essere piu’ "indeterminato" creato dalla natura) "piu’ minacciato ebbe bisogno di aiuto, di protezione, ebbe bisogno dei suoi simili, dovette manifestare la sua miseria, sapersi far comprendere,- e per tutto questo ebbe innazitutto bisogno di <<essere cosciente>>, di sapere cio’ che gli mancava, di <<sapere>> quale era il suo stato d’animo, di <<sapere>> cio’ che pensava." Ma senza comprendere i limiti, in particolare, del linguaggio gli uomini hanno finito col proiettare le loro condizioni di sopravvivenza come attributi dell’essere in generale, scambiandoli per il "vero".
Primo Levi asseriva che il linguaggio e il pensiero concettuale sono dei mirabili strumenti, che il genere umano si e’ costruito nel corso dell’evoluzione, per <<comprendere>>, cioe’ per <<semplificare>>, ridurre il conoscibile a schema al fine di poter dirigere e determinare la nostre azione nell’ambiente. Senza questa profonda semplificazione aggiungeva "il mondo intorno a noi sarebbe un groviglio infinito e indefinito" che sfiderebbe la nostra capacita’ di vivere, orientarci ed agire."
Per Levi questo desiderio umano di semplificare e’ giustificato mentre non lo e’ sempre la <<semplificazione>> perche’ essa non rappresenta piu’ "un’ipotesi di lavoro", e in quanto tale riconosciuta e utilizzata, ma un dispositivo che metodicamente confonde e scambia i suoi schemi e modelli per e con la realta’. In questo modo il pensiero e le parole si trasformano in un puri strumenti di potere e dominio. Come scriveva Horkheimer: il linguaggio diventa uno strumento come gli altri, nel gigantesco apparato di produzione della societa’ moderna: "il significato e’ soppiantato dalla funzione, dall’effetto sul mondo delle cose e dei fatti.(…) il linguaggio e’ considerato solo un mezzo utile per fissare, conservare e comunicare gli elementi intellettuali della produzione o a guidare le masse."
Questa condizione di puro strumento produttivo del linguaggio trova il suo compendio in una sua regressione ad una fase magica:
"Come ai tempi in cui si credeva alla magia, ogni parola appare come una forza pericolosa, che potrebbe distruggere la societa’ e della quale chi l’ha pronunciata deve rispondere. Di conseguenza, il controllo della societa’ impone dei limiti alla ricerca della verita’. Si crede che non esista nessuna differenza fra pensare ed agire; cosi’ ogni pensiero e’ considerato un atto, ogni riflessione una tesi, e ogni tesi una parola d’ordine. Ognuno e’ chiamato a rispondere di cio’ che dice e di cio’ che non dice; ogni cosa ed ogni persona sono classificate ed etichettate. La qualita’ di essere umano, che non permette di identificare l’individuo con una classe, e’ <<metafisica>>, e non ha posto nell’epistemologia empirica. La casella in cui l’uomo viene ficcato circoscrive il suo destino".
Oggi un concetto o un’idea sembrano avere significato solo in forza delle loro conseguenze-effetti sulla produzione e sulla condotta umana, in base al loro valore di mercato o di propaganda. Si stima che le parole non abbiano piu’ un significato ma solo una funzione. "La preferenza per parole e frasi semplici e povere che si possono raggruppare alla prima occhiata e’ una delle tendenze antintellettuali, antiumanistiche piu’ evidenti nell’evoluzione del linguaggio moderno come in tutta la vita culturale dei nostri giorni…". Il nuovo linguaggio "degli individui che stanno per ammutolire" e’ "un agglomerato di sfacciate frasi fatte, di collegamenti logici solo in apparenza, di parole galvanizzate che hanno il valore di marchi di fabbrica- eco confusa del mondo della reclame".
T.W.Adorno profeticamente diceva "la comunicazione, legge universale della convenzione, annuncia che non e’ piu’ possibile nessuna comunicazione…infatti gli uomini nel parlarsi, in parte sono guidati dalla loro psicologia (l’inconscio prelogico), in parte mirano a scopi che, in quanto intesi alla pura e semplice autoconservazione, si allontanano dall’oggettivita’ che la forma logica fa balenare…il linguaggio si polarizza allo stadio della sua decomposizione. Qui diventa basic english, un francese, un tedesco ridotti a singole parole, a ordini pronunciati arcaicamente nel gergo di un universale disprezzo, quale si puo’ esprimere nella familiarita’ tra due contraenti inconciliabili; la’ diviene il complesso delle proprie forme vuote, di una grammatica privatasi di ogni rapporto col contenuto del linguaggio e dunque della propria funzione di sintesi."
Il pensiero concettuale e il linguaggio nel capitalismo diventano i mezzi di un potere che vuole ridurre l’esistenza a dei modelli e a delle immagini cristallizzate che negano, tentano di controllare per sfruttarle economicamente la problematicita’ e la contraddittorieta’ e la complessita’ della vita e delle sue forme.
L’esistenza completamente assorbita nel concetto infatti e’, oggi, la forma adeguata al suo consumo produttivo da parte del capitale. Non e’ un caso che l’apparato, la macchina produttiva capitalistica tende a negare che la vita sia nella sfera della della finitezza temporale, tra il nascere e il morire. Linguaggio e pensiero concettuale come mezzi di produzione del capitale si traducono in una macchina per oggettivare, reificare il flusso indeterminato e irriducibile dell’esistenza umana. In questa situazione tendono a disconoscere la loro finalita’ propriamente umana cioe’ il loro essere condizione di possibilita’ di un processo relazionale degli uomini tra loro, degli uomini con loro stessi e il mondo. Questi "mirabili strumenti" non sono a disposizione di un processo che cerca risposte adeguate e condivise alla condizione esistenziale umana al suo essere situata nella precarieta’ temporale ed esistenziale, ma al contrario servono ad elaborare una de-realizzazione del mondo, a reificare-oggettivare e consumare la vita e le sue molteplici forme. Essi operano per creare un "universo parallelo" dove non c’e’ piu’ "natura", non c’e’ il dolore dell’esistere, non c’e’ problematicita’ del vivere che non sia ridotta a "problema tecnico" da affidare a degli "specialisti".
La "natura" dentro e fuori di noi viene valutata, osservata e studiata come un "errore", una "deviazione", una materia informe e minacciosa che bisogna domare e divorare. L’uomo deve approssimarsi al "non-vivente", al "produttivo assoluto", cioe’ ad un sussistente funzionale che si deve lasciar sedurre dal suo corpo, dalla materia, dalle sue pulsioni inconsce e dalla sua carnalita’ a comando, solo quando serve ad alimentare il dispositivo produttivo capitalistico.
Gli infiniti significati e possibilita’ dell’esistenza sono imprigionati nell’orizzonte del controllabile e del consumabile produttivo per un sistema di potere che come una macchina che ha gettato a terra il conducente e corre cieca nello spazio.La societa’ apparente del capitale e’ ormai una macchina chiusa su se stessa, in un istinto di autoconservazione che ha perduto ogni relazione con l’umano.
Per sfruttare la vita nella sua totalita’, fino alla sua liquidazione completa, il capitale cerca disperatamente di sciogliere e assorbire l’intreccio e la correlazione irriducibile, l’indeterminatezza essenziale dell’esistenza attraverso il linguaggio, i "segni"…Come scriveva Wittgenstein, qualsiasi cosa o fatto del mondo puo’ essere trasformato in segno, "nominato" e in definitiva sottoposto ad una forma di controllo e di dominio. Ma questa "conversione" della vita in una trama di segni non esaurisce tutti i suoi possibili significati, non scioglie mai completamente la sua "ambiguita’". Non "e’ possibile mediante il linguaggio uscire dal linguaggio…e cio’ che appartiene all’essenza del mondo, il linguaggio non lo puo’ esprimere". Parlare un linguaggio fa parte di una attivita’, o di una forma di vita determinata e la relazione dell’uomo col mondo e con se stesso e gli altri non e’ mediato solo dal linguaggio verbale. Esistono anche "segni" e "linguaggi" non -verbali.
I "segni" e il "linguaggio" non sono qualcosa di sussistente in se’, ne’ una "sostanza", ma sono sempre dentro un contesto, una situazione. Noi "comprendiamo" il significato di una parola solo perche’ e’ strettamente legata e intrecciata ad un complesso di comportamenti abituali che appunto costituiscono la nostra "forma di vita". Noi siamo al mondo prima di tutto con una corporeita’ ed e’ attraverso il corpo che apprendiamo originariamente questo mondo.
E’ attraverso la sua sensibilita’, il suo modo particolare di percepire e recepire che un corpo determinato entra in relazione con l’ambiente. Un corpo e’ sempre nello spazio e nel tempo ed e’ continuamente attraversato da bisognim passioni e pulsioni di ogni genere. Nella forma di vita culturale, fatta solo di segni e linguaggio, in asenza della sensibilita’ del corpo non e’ possibile nessuna vera esperienza e nessuna conoscenza.
"il mondo non e’ cio’ che io penso, ma cio’ che io vivo". Gli "io astratti" nei segni e nel linguaggio "vanno bene ovunque e in nessun luogo". Il modo in cui comunichiamo definisce anche il mondo che c’e’ intorno a noi e nel quale ci troviamo. Senza una percezione chiara dell’Altro nel suo essere "inconfondibile" la comunicazione degenera in quella che Heiddeger definiva "chiacchiera". La comunicazione puo’ ricevere un senso umano solo nell’orizzonte di un progetto concreto cooperativo. In uno stato di "irrilevanza" e di "indistinzione" dell’Altro la comunicazione diventa quell’impersonale <<si dice>>, <<si parla>>. Qui si perde se stessi e si perdono gli altri in una massa anonima regolata da norme di condotta astratte. Nella "chiacchiera comprendiamo tutto ma senza alcuna appropriazione preliminare delle cose da comprendere. Essa e’ alla portata di tutti e "non solo esime da una comprensione autentica, ma diffonde una comprensione indifferente, per la quale non esiste piu’ nulla di incerto".
Quando il "sapere" diventa solo un "sapere di parole" noi abbiamo "soltanto parole, noi non conosciamo nulla".