Non avrai altri jeans all’infuori di me

 "La Chiesa non può che essere reazionaria; la Chiesa non può che essere
dalla parte del Potere; la Chiesa non può che accettare le regole
autoritarie e formali della convivenza; la Chiesa non può che approvare
le società gerarchiche in cui la classe dominante garantisca l’ordine;
la Chiesa non può che detestare ogni forma di pensiero anche
timidamente libero; la Chiesa non può che essere contraria a qualsiasi
innovazione anti-repressiva (ciò non significa che non possa accettare
forme, programmate dall’alto, di tolleranza: praticata, in realtà, da
secoli, a-ideologicamente, secondo i dettami di una «Carità» dissociata
– ripeto, a-ideologicamente – dalla Fede); la Chiesa non può che agire
completamente al di fuori dell’insegnamento del Vangelo; la Chiesa non
può che prendere decisioni pratiche riferendosi solo formalmente al
nome di Dio, e qualche volta magari dimenticandosi di farlo; la Chiesa
non può che imporre verbalmente la Speranza, perché la sua esperienza
dei fatti umani le impedisce di nutrire alcuna specie di speranza; la
Chiesa non può (per venire a temi di attualità) che considerare
eternamente valido e paradigmatico il suo concordato col fascismo."

In tutte le societa' esistono istituzioni che funzionano da sistema di controllo dell' informazione: la famiglia, la scuola, lo Stato, la religione, i partiti politici…
Neil Postman parla ad esempio anche della Bibbia come "meccanismo di controllo dell' informazione" dal momento che la sua "narrazione divina" impartisce istruzioni su quanto uno deve o non deve fare; fornisce una guida sul linguaggio da usare o meno (bestemmia), sulle idee
da evitare (pena l' eresia), sui simboli da accettare o no (pena l' idolatria).
Come nel processo a Galileo al cardinale Bellarmino spettava il compito di conservare alla bibbia la sua autorita' di controllo sull' informazione decidendo la possibilita' di ammettere e divulgare oppure no alcuni tipi di informazioni.
Nella narrazione bibblica sono contenute una teoria e spiegazione del senso della vita e dunque una morale e una classificazione del comportamento retto:
da essa, attraverso l' onniscente autorita' mediatoria della chiesa ufficiale,i fedeli ricevono disposizioni a riguardo dei libri che potranno leggere, sui film o le commedie che potranno guardare, sulla musica che potranno ascoltare, sui videogiochi con cui potranno giocare o no i loro figli ecc.

L' autorita' che detiene il monopolio dell' interpretazione della parola contenuta nella bibbia decide quali sono le informazioni accettabili o meno sul piano morale…cosi' come nell' integralismo cristiano anche in quello mussulmano o liberista o scientista, a gradi e livelli diversi di realta', le "narrazioni" di cui hanno (o ritengono di avere) il monopolio funzionano da meccanismi di regolazione e valutazione dell' informazione…
In questo contesto sormontato da una teoria indiscutibile nessuno corre il rischio di essere minacciato da "confusione concettuale e morale" e quando lo e' puo' sempre essere o rieducato in qualche gulag o comunita' terapeutica o carcere oppure condannato a morte per empieta' da un tribunale tanto stalinista quanto religioso.
La narrazzione "trascendentale" di volta in volta si arroga con la complicita' delle istutuzioni dello Stato di controllare/bloccare/favorire determinati flussi d' informazione ovvero cerca di controllare gli universi mentali e i comportamenti morali degli individui.

Le burocrazie dello Stato come quelle di Dio come diceva Max Weber hanno il compito di razionalizzare il flusso d' informazione eliminando tutta quella che distoglie l' attenzione dai fini ultimi di volta in volta unilateralmente decisi a-priori dai privilegiati, dal mercato, dalla competizione coi cinesi ecc.
E poi ci sono gli " esperti" e gli "specialisti" di ogni genere e rango per ogni meteria e campo della vita che rivendicano la loro autorita' sebbene strettamente delimitata e  "tecnica"…
I mezzi con cui le cricche al potere e il sistema stessa nella sua feroce impersonalita' tentano di condurre "all' ordine e alla chiarezza" sono molteplici e di varia natura.
L' ideologia incorporata nelle macchine/tecnologia anche ci guida alla percezione chiara e ordinata del mondo…In fondo siamo un "pubblico disperato" alla ricerca di un' autorita' morale che dia un "senso"- si tratti della scienza o della religione…
Alla "decomposizione del mito", alla morte delle "grandi narrazioni" succede lo smarrimento che non conduce alla responsabilita' ma alla nostalgia, dal disincanto al politeismo delle merci materiali/immateriali.
Imbonitori da fiera dello spirito appostati in ogni angolo della rete e delle strade offrono al suono squillante di catastrofi, apocalissi da giudizio universale o da "lunedi nero" a wall street merci spirituali di ogni sorta, consolazioni per ogni tasca.

Il recupero autoritario e commerciale del mito e della trascendenza dei suoi banalizzati simboli e immagini per le masse orfane di devozioni e di grandi narrazzioni non e' del tutto innocuo ricordando che la storiella della supremazia ariana duro' col suo simbolismo teutonico-paganeggiante dodici anni e furono sufficienti a dispiegare una brutalita' innominabile.

Che la vita sia solo economia (per quanto le mediazioni a questa nuda verita' siano tante sottili ed infinite), che l' obiettivo esistenziale di intere moltitudini (come si chiamano oggi gli sfruttati) sia ridotto alla competizione coi cinesi o a fare il culo, economicamente s' intende, ai giapponesi apre dei vuoti culturali, sociali ed umani che si possono riempire a seconda del caso con le piu' svariate plurali merde…

Comunque nel revival tanto idiota quanto autoritario e neofascista dei "miti" dello Stato e della Religione non si puo' pensare che la censura sia solo un' affare da cinesi o da iraniani…e tuttavia neppure che i problemi fondamentali della liberta' siano circoscritti al mondo dell' informazione e della telecomunicazione…
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citazioni dal presente……

"Il Crimen Sollicitationis prescrive una politica di segretezza assoluta su tutti gli abusi. Quello che leggiamo qui è una chiara politica di copertura dei casi di abuso commessi dai preti. E anche la punizione per quelli che vorrebbero richiamare l'attenzione su questi crimini ad opera del clero. Il che prova che le gerarchie ecclesiastiche sono interessate unicamente al controllo della situazione. C’è la chiara evidenza che la preoccupazione è solo di controllare e contenere il problema. Da nessuna parte c’è scritto di aiutare le vittime. La sola cosa che impone, invece, è di terrorizzare le vittime con la minaccia di punirle se raccontano l’accaduto. L'obiettivo è proteggere la reputazione dei preti, finchè la Chiesa non compia indagini. In pratica copre i preti pedofili."

"Fu Ratzinger a imporlo per 20 anni, l’uomo eletto Papa lo scorso anno. Nel 2001 Ratzinger emanò il seguito del Crimen Sollicitationis. Lo spirito era lo stesso. Ribadiva con enfasi la segretezza, pena la scomunica. Ne inviò una copia ad ogni vescovo del mondo. Recentemente ha aggiunto che tutte le accuse devono essere vagliate esclusivamente dal Vaticano. In altre parole solo Roma può pronunciarsi sugli abusi sessuali sui minori."

Secondo il Vaticano il documento "Crimen Sollicitationis" sarebbe
decaduto, ma secondo Shea non è così: l’avvocato aveva citato una
lettera del 18 maggio 2001, di cui era giunto in possesso, firmata da
Ratzinger e dall’arcivescovo Tarcisio Bertone, all’epoca segretario
dell’ex Sant’Uffizio, in cui si parlava del documento del 1962 «in
vigore fino ad oggi».
(Daniel J. e' Shea l’avvocato americano che
aveva citato in giudizio il Pontefice quando era ancora Cardinale, era
venuto a Roma su invito del partito Radicale; in quell’occasione aveva
auspicato che George W. Bush non concedesse l’immunità diplomatica a
Papa Benedetto XVI, nell’ambito del procedimento civile non penale –
aperto in Texas, accusato di complotto per coprire le molestie sessuali
contro tre ragazzi da parte di un seminarista…)

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citazioni dal passato…si fa per dire dal passato

ll sesso come metafora del potere
Dal "Corriere della Sera", intervista del 25 marzo 1975
[Ora in Pasolini per il cinema, a cura di Walter Siti e Franco Zabagli. Tomo II. Meridiani Mondadori 2001]

Questo film ha dei precedenti nella sua opera?
Sì. Le ricordo Porcile. Le ricordo anche Orgia, un’opera teatrale di cui ho curato io stesso la regia (a Torino, nel ’68). L’avevo pensata nel 1963, e scritta tra il ’65 e il ’68 come del resto Porcile, che era anch’esso un’opera teatrale. Originariamente doveva essere un’opera teatrale anche Teorema (uscito nel ’68). De Sade c’entrava attraverso il teatro della «crudeltà», Artaud, e, per quanto sembri strano, anche attraverso Brecht, autore che fino a quel momento avevo poco amato, e per cui ho avuto un improvviso, anche se non travolgente amore appunto in quegli anni antecedenti alla contestazione. Non sono contento né di Porcile né di Orgia: lo straniamento e il distacco non fanno per me, come del resto la «crudeltà».

E allora Salò?
E vero, Salò sarà un film «crudele», talmente crudele che (suppongo) dovrò per forza distanziarmene, fingere di non crederci e giocare un po’ in modo agghiacciante… Ma mi lasci finire il discorso sui «precedenti». Nel ’70 ero nella valle della Loira. Facevo dei sopralluoghi per il Decameron. Sono stato invitato a fare un dibattito con gli studenti dell’Università di Tours. Lì insegna Franco Cagnetta, il quale mi ha dato da leggere un libro su Gilles de Rais e i documenti del suo processo, pensando che, potesse essere un film per me. Ci ho pensato seriamente per qualche settimana (è uscita in Italia in questi mesi una bellissima biografia di Gilles de Rais, a cura di Ernesto Ferrero). Naturalmente poi ci ho rinunciato. Ero ormai preso dalla Trilogia della Vita.

Perché?
Un film «crudele» sarebbe stato direttamente politico (eversivo e anarchico, in quel momento): quindi insincero. Forse ho sentito un po’ profeticamente che la cosa più sincera dentro di me, in quel momento, era fare un film su un sesso la cui gioiosità fosse un compenso – come infatti era – alla repressione: fenomeno che stava per finire ormai per sempre. La tolleranza di lì a poco avrebbe reso il sesso triste e ossessivo. Ho evocato nella Trilogia i fantasmi dei personaggi dei miei film realistici precedenti. Senza più denuncia, ovviamente, ma con un amore così violento per il «tempo perduto», da essere una denuncia non di qualche particolare condizione umana ma di tutto il presente (permissivo per forza). Ora siamo dentro quel presente in modo ormai irreversibile: ci siamo adattati. La nostra memoria è sempre cattiva. Viviamo dunque ciò che succede oggi, la repressione del potere tollerante, che, di tutte le repressioni, è la più atroce. Niente di gioioso c’è più nel sesso. I giovani sono o brutti o disperati, cattivi o sconfitti.

E questo che vuole esprimere in Salò?
Non lo so. Questo è il «vissuto». Certo non ne posso prescindere. È uno stato d’animo. È quello che cova nei miei pensieri e che soffro personalmente. Dunque è questo forse ciò che voglio esprimere in Salò. Il rapporto sessuale è un linguaggio (ciò, per quanto mi riguarda, è stato chiaro ed esplicito specialmente in Teorema): ora i linguaggi o sistemi di segni cambiano. Il linguaggio o sistema di segni del sesso è cambiato in Italia in pochi anni, radicalmente. Io non posso essere fuori dell’evoluzione di alcuna convenzione linguistica della mia società, compresa quella sessuale. Il sesso è oggi la soddisfazione di un obbligo sociale, non un piacere contro gli obblighi sociali. Da ciò deriva un comportamento sessuale appunto radicalmente diverso da quello a cui io ero abituato. Per me dunque il trauma è stato (ed è) quasi intollerabile.

In pratica, per quanto riguarda Salò-
Il sesso in Salò è una rappresentazione, o metafora, di questa situazione: questa che viviamo in questi anni: il sesso come obbligo e bruttezza.

Mi sembra di capire, però, che in lei ci siano anche altre intenzioni meno interiori; forse, ma più dirette…
Sì, ed è a queste che voglio arrivare. Oltre che la metafora del rapporto sessuale (obbligatorio e brutto) che la tolleranza del potere consumistico ci fa vivere in questi anni, tutto il sesso che c’è in Salò (e ce n’è in quantità enorme) è anche la metafora del rapporto del potere con coloro che gli sono sottoposti. In altre parole è la rappresentazione (magari onirica) di quella che Marx chiama la mercificazione dell’uomo: la riduzione del corpo a cosa (attraverso lo sfruttamento). Dunque il sesso è chiamato a svolgere nel mio film un ruolo metaforico orribile. Tutto il contrario che nella Trilogia (se, nelle società repressive, il sesso era anche un’irrisione innocente del potere).

Ma le sue Centoventi giornate di Sodoma non si svolgono appunto a Salò nel 1944?
Sì, a Salò, e a Marzabotto. Ho preso a simbolo di quel potere che trasforma gli individui in oggetti (come per esempio nei migliori films di Miklés Janksó) il potere fascista e nella fattispecie il potere repubblichino. Ma, appunto, si tratta di un simbolo. Quel potere arcaico mi facilita la rappresentazione. In realtà lascio a tutto il film un ampio margine bianco, che dilata quel potere arcaico, preso a simbolo di tutto il potere, e abbordabili alla immaginazione tutte le sue possibili forme… E poi… Ecco: è il potere che è anarchico. E, in concreto, mai il potere è stato più anarchico che durante la Repubblica di Salò.

E De Sade, che c’entra?
C’entra, c’entra, perché De Sade è stato appunto il grande poeta dell’anarchia del potere.

Come?
Nel potere – in qualsiasi potere, legislativo e esecutivo – c’è qualcosa di belluino. Nel suo codice e nella sua prassi, infatti, altro non si fa che sancire e rendere attualizzabile la più primordiale e cieca violenza dei forti contro i deboli: cioè, diciamolo ancora una volta, degli sfruttatori contro gli sfruttati. L’anarchia degli sfruttati è disperata, idillica, e soprattutto campata in aria, eternamente irrealizzata. Mentre l’anarchia del potere si concreta con la massima facilità in articoli di codice e in prassi. I potenti di De Sade non fanno altro che scrivere Regolamenti e regolarmente applicarli.

Scusi se torno alla pratica: ma in pratica come tutto ciò si realizza nel film?
È semplice, più o meno come nel libro di De Sade: quattro potenti (un duca, un banchiere, un presidente di tribunale e un monsignore), ontologici e perciò arbitrari, «riducono a cose» delle vittime umili. E ciò in una specie di sacra rappresentazione, che seguendo probabilmente quella che era l’intenzione di Sade, ha una specie di organizzazione formale dantesca. Un Antinferno, e tre Gironi. La figura principale (di carattere metonimico) è l’accumulazione (dei crimini): ma anche l’iperbole (vorrei giungere al limite della sopportabilità).

Chi sono gli attori che rappresentano i quattro mostri?
Non so se saranno mostri. Comunque non meno e non più delle vittime. Nello scegliere gli attori ho fatto la solita contaminazione: si tratta di un generico che in più di vent’anni di lavoro non ha mai detto una battuta, Aldo Valletti; di un mio vecchio amico delle borgate romane (conosciuto ai tempi di Accattone!), Giorgio Cataldi; di uno scrittore, Uberto Paolo Quintavalle, e infine anche di un attore, Paolo Bonacelli.

E chi saranno le quattro «megere» narratrici?
Saranno tre bellissime donne (la quarta nel mio film fa la pianista, perché i Gironi sono appunto tre): Helene Surgère, Caterina Boratto e Elsa de’ Giorgi. La pianista sarà Sonia Saviange. Le due attrici francesi le ho scelte dopo aver visto a Venezia il film Femmes Femmes di Vecchiali: bellissimo film in cui le due attrici, per restare nel contesto linguistico francese, sono «sublimi» (ma veramente).

E le vittime?
Tutti ragazzi e ragazze non professionisti (almeno in parte: le ragazze le ho scelte tra delle fotomodelle, perché naturalmente dovevano avere dei bei corpi e, soprattutto, non dovevano avere paura di mostrarli).

Dove gira?
A Salò (esterni), a Mantova (interni ed esterni in cui si svolgono rapimenti e rastrellamenti), a Bologna e dintorni: il paesetto sul Reno sostituirà il distrutto Marzabotto.

So che sono due settimane che sono cominciate le riprese. Può dire qualcosa del suo lavoro?
Me lo risparmi. Non c’è niente di più sentimentale di un regista che parla del suo lavoro sul set.

http://www.pasolini.net/processi.htm

Analisi linguistica di uno slogan

    Il linguaggio dell’azienda è un linguaggio per definizione puramente comunicativo: i luoghi dove si produce sono i luoghi dove la scienza viene applicata, sono cioè luoghi del pragmatismo puro. I tecnici parlano fra loro un gergo specialistico, sì, ma in funzione strettamente, rigidamente comunicativa. Il canone linguistico che vige dentro la fabbrica, poi, tende ad espandersi anche fuori: è chiaro che coloro che producono vogliono avere con coloro che consumamo un rapporto d’affari assolutamente chiaro.
         C’è un solo caso di espressività -ma di espressivita aberrante- nel linguaggio puramente comunicativo dell’industria: è il caso dello slogan. Lo slogan infatti deve essere espressivo, per impressionare e convincere. Ma la sua espressività è mostruosa perché diviene immediatamente stereotipa, e si fissa in una rigidità che è proprio il contrario dell’espressività, che è eternamente cangiante, si offre a un’interpretazione infinita.
    .
         La finta espressività dello slogan è così la punta massima della nuova lingua tecnica che sostituisce la lingua umanistica. Essa è il simbolo della vita linguistica del futuro, cioè di un mondo inespressivo, senza particolarismi e diversità di culture, perfettamente omologato e acculturato. Di un mondo che a noi, ultimi depositari di una visione molteplice, magmatica, religiosa e razionale della vita, appare come un mondo di morte.
Ma è possibile prevedere un mondo così negativo? È possibile prevedere un futurocomefine di tutto? Qualcuno -come me- tende a farlo, per disperazione: l’amore per il mondo che è stato vissuto e sperimentato impedisce di poter pensarne un altro che sia altrettanto reale; che si possano creare altri valori analoghi a quelli che hanno resa preziosa  una esistenza. Questa visione apocalittica del futuro è giustificable, ma probabilmente ingiusta.
         Sembra folle, ma un recente slogan, quello divenuto fulmineamente celebre, dei jeans "Jesus": "Non avrai altri jeans all’infuori di me", si pone come un fatto nuovo, una eccezione nel canone fisso dello slogan, rivelandone una possibilità espressiva imprevista, e indicandone una evoluzione diversa da quella che la convenzionalità -subito adottata dai disperati che vogliono sentire il futuro come morte- faceva troppo ragionevolmente prevedere.
         Si veda la reazione dell’"Osservatore romano" a questo slogan: con il suo italianuccio antiquato, spiritualistico e un po’ fatuo, l’articolista dell’ "Osservatore" intona un treno, non certo biblico, per fare del vittimismo da povero, indifeso innocente. È lo stesso tono con cui sono redatte, per esempio, le lamentazioni contro la dilagante immoralità della letteratura o del cinema. Ma in tal caso quel tono piagnucoloso e perbenistico nasconde la volontà minacciosa del potere: mentre l’articolista, infatti, facendo l’agnello, si lamenta nel suo ben compitato italiano, alle sue spalle il potere lavora per sopprimere, cancellare, schiacciare i reprobi che di quel patimento son causa. I magistrati e i poliziotti sono all’erta; l’apparato statale si mette subito diligentemente al servizio dello spirito. Alla geremiade dell’"Osservatore" seguono i procedimenti legali del potere: il letterato o cineasta blasfemo è subito colpito e messo a tacere.
         Nei casi insomma di una rivolta di tipo umanistico -possibili nell’ambito del vecchio capitalismo e della prima rivoluzione industriale- la Chiesa aveva la possiblità di intervenire e reprimere, contraddicendo brutalmente una certa volontà formalmente democratica e liberale del potere statale. Il meccanismo era semplice: una parte di questo potere -per esempio la magistratura e la polizia- assumeva una funzione conservatrice o reazionaria, e, come tale, poneva automaticamente i suoi strumenti di potere al servizio della Chiesa. C’è dunque un doppio legame di malafede in questo rapporto tra Chiesa e Stato: da parte sua la Chiesa accetta lo Stato borghese -al posto di quello monarchico o feudale- concedendo ad esso il suo consenso e il suo appoggio senza il quale, fino a oggi, il potere statale non avrebbe potuto sussistere: per far questo la Chiesa doveva però ammettere e approvare l’esigenza liberale e la formalità democratica: cose che ammetteva e approvava solo a patto di ottenere dal potere la tacita autorizzazione a limitarle a sopprimerle. Autorizzazioni, d’altra parte, che il potere borghese concedeva di tutto cuore. Infatti il suo patto con la Chiesa in quanto instrumentum regni in altro non consisteva che in questo: mascherare il proprio sostanziale illiberalismo e la propria sostanziale antidemocraticità affidando la funzione illiberale e antidemocratica alla Chiesa, accettata in malafede come superiore istituzione religiosa. La Chiesa ha insomma fatto un patto col diavolo, cioè con lo Stato borghese. Non c’è contraddizione più scandalosa infatti che quella tra religione e borghesia, essendo quest’ultima il contrario della religione. Il potere monarchico o feudale lo era in fondo di meno. Il fascismo, perciò, in quanto momento regressivo del capitalismo, era meno diabolico, oggettivamente, dal punto di vista della Chiesa, che il regime democratico: il fascismo era una bestemmia, ma non minava all’interno la Chiesa, perché esso era una falsa nouva ideologia. Il Concordato non è stato un sacrilegio negli anni Trenta, ma lo è oggi, se il fascismo non ha nemmeno scalfito la Chiesa, mentre oggi il neocapitalismo la distrugge. L’accettazione del fascismo è stato un atroce episodio: ma l’accettazione della civiltà borghese capitalistica è un fatto definitivo, il cui cinismo non è solo una macchia, l’ennesima macchia nella storia della Chiesa, ma un errore storico che la Chiesa pagherà probabilemente con il suo declino. Essa non ha infatti intuito -eterna della propria funzione istituzionale- che la Borghesia rappresentava un nuovo spirito che non è certo quello fascista: un nuovo spirito che si sarebbe mostrato dapprima competitivo con quello religioso (salvandone solo il clericalismo), e avvrebbe finito poi col prendere il suo posto nel fornire agli uomini una visione totale e unica della vita (e col non avere più bisogno quindi del clericalismo come strumento di potere).

È vero: come dicevo, alle lamentele patetiche dell’articolista dell’"Ossevatore" segue tuttora immediatamente -nei casi di opposizione "classica"- l’azione della magistratura e della polizia. Ma è un caso di sopravvivenza. Il Vaticano trova ancora vecchi uomini fedeli nell’apparato del potere statale: ma sono, appunto, vecchi. Il futuro non appartiene né ai vecchi cardinali, né ai vecchi uomini politici, né ai vecchi magistrati, né ai vecchi poliziotti. Il futuro appartiene alla giovane borghesia che non ha più bisogno di detenere il potere con gli strumenti classici; che non sa più cosa farsene della Chiesa, la quale, ormai, ha finito genericamente con l’appartenere a quel mondo umanistico del passato che costituisce un impedimento alla nuova rivoluzione industriale; il nuovo potere borghese infatti necessita nei consumatori di uno spirito totalmente pragmatico ed edonistico: un universo tecnicistico e puramente terreno è quello in cui può svolgersi secondo la propria natura il ciclo della produzione e del consumo. Per la religione e soprattutto per la Chiesa non c’è più spazio. La lotta repressiva che il nuovo capitalismo combatte ancora per mezzo della Chiesa è una lotta ritardata, destinata, nella logica borghese, a essere ben presto vinta, con la conseguente dissoluzione "naturale" della Chiesa.
    .
         Sembra folle, ripeto, ma il caso dei jeans "Jesus" è un spia di tutto questo. Coloro che hanno prodotto questi jeans e li hanno lanciati nel mercato, usando per lo slogan di prammatica uno dei dieci Comandamenti, dimostrano -probabilmente con una certa mancanza di senso di colpa, cioè con l’incoscienza di chi non si pone più certi problemi- di essere già oltre la soglia entro cui si dispone la nostra forma di vita e il nostro orizzonte mentale.
         C’è, nel cinismo di questo slogan, un’intensità e una innocenza di tipo assolutamente nuovo, benché probabilmente maturato a lungo in questi ultimi decenni (per un periodo più breve in Italia). Esso dice appunto, nella sua laconicità di fenomeno rivelatosi di colpo alla nostra coscienza, già così completo e definitivo, che i nuovi industriali e nuovi tecnici sono completamente laici, ma di una laicità che non si misura più con la religione. Tale laicità è un "nuovo valore" nato nell’entropia borghese, in cui la religione sta deperendo come autorità e forma di potere, e sopravvive in quanto ancora prodotto naturale di enorme consumo e forma folcloristica ancora sfruttabile.
         Ma l’interesse di questo slogan non è solo negativo, non rappresenta solo il modo nuovo un cui la Chiesa viene ridimensionata brutalmente a ciò che essa realmente ormai rappresenta: c’è in esso un interesse anche positivo, cioè la possibilità imprevista di ideologizzare, e quindi rendere espressivo, il linguaggio dello slogan e quindi presumibilmente, quello dell’intero mondo teconologico. Lo spirito blasfemo di questo slogan non si limita a una apodissi, a una pura osservazione che fissa la espressività in pura comunicatività. Esso è qualcosa di più che una trovata spregiudicata (il cui modello è l’anglosassone "Cristo super-star"): al contrario, esso si presta a un’interpretazione, che non può essere che infinita: esso conserva quindi nello slogan i caratteri ideologici e estetici della espressività. Vuol dire – forse – che anche il futuro che a noi – religiosi e umanisti – appare come fissazione e morte, sarà in un modo nuovo, storia; che l’esigenza di pura comunicatività della produzione sarà in qualche modo contraddetta. Infatti lo slogan di questi jeans non si limita a comunicarne la necessità del consumo, ma si presenta addirittura come la nemesi – sia pur incosciente – che punisce la Chiesa per il suo patto col diavolo. L’articolista dell'"Osservatore" questa volta sì è davvero indifeso e impotente: anche se magari magistratura e poliziotti, messi subito cristianamente in moto, riusciranno a strappare dai muri della nazione questo manifesto e questo slogan, ormai si tratta di un fatto irreversibile anche se forse molto anticipato: il suo spirito è il nuovo spirito della seconda rivoluzione industriale e della conseguente mutazione dei valori.
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    * Sul "Corriere della Sera" col titolo "Il folle slogan dei jeans Jesus".

La Chiesa, i peni e le vagine *

    La Chiesa non può che essere reazionaria; la Chiesa non può che essere dalla parte del Potere; la Chiesa non può che accettare le regole autoritarie e formali della convivenza; la Chiesa non può che approvare le società gerarchiche in cui la classe dominante garantisca l’ordine; la Chiesa non può che detestare ogni forma di pensiero anche timidamente libero; la Chiesa non può che essere contraria a qualsiasi innovazione anti-repressiva (ciò non significa che non possa accettare forme, programmate dall’alto, di tolleranza: praticata, in realtà, da secoli, a-ideologicamente, secondo i dettami di una «Carità» dissociata – ripeto, a-ideologicamente – dalla Fede); la Chiesa non può che agire completamente al di fuori dell’insegnamento del Vangelo; la Chiesa non può che prendere decisioni pratiche riferendosi solo formalmente al nome di Dio, e qualche volta magari dimenticandosi di farlo; la Chiesa non può che imporre verbalmente la Speranza, perché la sua esperienza dei fatti umani le impedisce di nutrire alcuna specie di speranza; la Chiesa non può (per venire a temi di attualità) che considerare eternamente valido e paradigmatico il suo concordato col fascismo. Tutto questo risulta chiaro da una ventina di sentenze «tipiche» della Sacra Rota, antologizzate dai 55 volumi delle Sacrae Romanae Rotae Decisiones, pubblicati presso la Libreria Poliglotta Vaticana dal 1912 al 1972.
         Non c’era bisogno certo della lettura di questo florilegio per sapere le cose che ho qui sopra sommariamente elencato. Tuttavia le conferme concrete -in questo caso la «vivacità involontaria dei documenti – ridà forza a vecchie convizioni tendenti all’inerzia. Per quel che riguarda una lettura letteraria, queste «sentenze» hanno poi notevoli elementi oggettivi di interesse (come osserva il prefatore del volume, Giorgio Zampa). Esse alludono con la violenza dell’oggettività – ossia dei riferimento alla matrice comune a tutta una serie di situazioni romanzesche: Balzac («Emilio Raulier aveva deciso di associarsi a tale Giuseppe Zwingesteiln, ma non aveva il capitale a ciò necessario…», «Se papà Planchut mi desse la somma…»), Bernanos, o Piovene («Frida… rimase orfana di entrambi i genitori ancora bambina e fu mandata dal nonno, che le faceva da padre, ne1 collegio delle suore di N. N., ove rimase sin quando ebbe quindici anni…»), Sologub («Essendo molto ricca, non appena ebbe superata la pubertà, venne chiesta in sposa al nonno da molti, alcuni dei quali di vecchia e nobile famiglia…»), Puskin («A bocca aperta i contadini ammirarono da lontano la pompa notturna delle nozze celebrate nella cappella privata della tenuta, tra Maria e il sottotenente Michele verso la mezzanotte dell’8 giugno 19…»), Pirandello, Brancati e Sciascia (Affascinata dall’avvenenza di Giovanni, giovane di ventotto anni, cattolicamente e piamente allevato, Renata, minore di lui di otto anni e allevata secondo princìpi e abitudini liberali, se ne invaghì…», «Quindi ella contrasse matrimonio per soddisfare la propria libidine, né poteva fare diversamente, giacché lui almeno dal punto di vista formale era cattolico e praticante»).
         Confesso che è da romanziere che ho letto questo libro, o forse anche da regista. La casistica è tale, da non potersi considerare cibo di tutti i giorni. Sono rimasto invece scandalizzato (in una lettura cosi professionale) da ciò che la Chiesa appare attraverso questo libro. Per la prima volta, essa si rivela anche formalmente del tutto staccata dall’insegnamento del Vangelo. Non dico una pagina, ma nemmeno una riga, una parola, in tutto il libro, ricorda, sia pure attraverso una citazione retorica o edificante, il Vangelo. Cristo vi è lettera morta. Viene nominato Dio, è vero: ma solo attraverso una formula (avendo innanzi agli occhi soltanto Dio, invocato il nome di Cristo), o poco più, ma sempre con inerte solennità liturgica, che non distingue per nulla queste «sentenze» da un testo sacerdotale faraonico o da un rotulo coranico. Il riferimento è semplicemente autoritario, e, appunto, nominale. Dio non entra mai all’interno dei ragionamenti che portano gli «Uditori» a annullare o a confermare un matrimonio, e quindi nel giudizio pronunciato a proposito dell’uomo e della donna che chiedono iI «divorzio» e della folla dei testimoni e dei parenti che riempiono la loro vita sociale e familiare. Ciò che i giudici hanno in mano è il codice; e va bene. Questo si può giustificare col fatto che il codice è specifico e specialistico. Ma, intanto, quel codice non è mai letto e applicato cristianamente: ciò che contano in esso sono le sue norme, e si tratta di norme puramente pratiche, che traducono in termini dal senso unico concetti irriducibili come, per esempio, «sacramento».
         La piattezza logica che ne consegue è degna dei peggiori tribunali borbonici (se si toglie ai fori meridionali la passione ribollente e l’amore per il diritto sia pure formale). Lo spaventoso grigiore ecciesiastico ben più tetramente privo di ogni sorta di «calore umano» che quello borbonico. Gli uomini, agli occhi dei giudici della Sacra Rota, appaiono completamente destituiti non solo di ogni inclinazione al bene, ma, quel che è peggio, di ogni vitalità nel compiere il male (o il non-bene). Come conosciuti da sempre nelle loro debolezze, essi non hanno più novità. Il loro disperato desiderio di ottenere dalla vita quel poco che possono, magari attraverso menzogne, ipocrisie, calcoli, riserve mentali ecc. (l’intero armamentario che, tutto sommato, rende gli uomini fratelli) agli occhi dei giudici della Sacra Rota non sembra materia né di meditazione né di commozione né di indignazione. I soli accenti di indignazione in tutte queste sentenze sono di carattere ideologico: hanno cioè come bersaglio la cultura laica e liberale, e, naturalmente, peggio ancora, la cultura socialista. Contro il fascismo vengono pronunciate parole di condanna: ma si tratta della condanna oggettiva che viene indifferentemente pronunciata contro tutte le debolezze umane e i peccati. Fascismo e debolezze umane fanno parte, indistintamente, di una realtà, fondata sui poteri istituiti, che è la sola che la Chiesa sembra riconoscere. Peraltro questi giudici non si lasciamo mai andare nemmeno a slanci di simpatia o approvazione. Gli unici casi, anche in questo senso, sono puramente formali. Vengono per esempio viste con simpatia e approvate le persone che, socialmente, sono considerate «cattoliche e osservanti». Su questo punto i giudici della Sacra Rota non conoscono ritegno: sono pronti a qualsiasi dissociazione e a qualsiasi contraddizione, rimuovendo ogni possibilità di casistica gesuitica (che pare il loro modello logico primo). Per esempio, una ragazza è impotente a causa di una contrazione vaginale di carattere isterico. Questo i giudici lo sanno: e ne tengono anche conto! Ma non si sognano nemmeno lontanamente di collegare tale mostruosa forma di isterismo con l’educazione rigidamente cattolica che era stata impartita a quella ragazza in un collegio di suore – e per cui essi avevano avuto parole di indiscusso elogio. D’altra parte in una causa di nullità di matrimonio dovuta alla impotenza, stavolta, del coniuge, essi non risparmiano a quel disgraziato nessuna delle più atroci condanne con cui si bolla, si emargina, si lincia un impotente, quando tale impotenza è dovuta a omosessualità. Essi sembrano semplicemente pronti a consegnarlo nelle mani di un boia che lo rinchiuda in un Lager, in attesa di eliminarlo in qualche forno crematorio o in quaiche camera a gas.
         Non si è comunque approfondito, da parte loro, se per caso anche lui avesse studiato in un collegio di preti (con conseguente repressione sessuale), non ci si è chiesto se per caso il suo tentativo di matrimonio avesse lo scopo di mendicare patenti di onorabilità o di normalità presso il vicinato, o fosse addirittura la ricerca annaspante di una situazione materna.
         Non ci si è nemmeno chiesto, d’altronde, se egli si fosse sposato per interesse, per miserabile calcolo (coprirsi le spalle facendosi mantenere, poveraccio): no. L’unica cosa che ha interessato i giudici è il puro e semplice dato della sua indegnità sociale: la maledizione che lo vuole fuori da quella realtà in cui debolezze umane, peccati e fascismo, trovano una possibilità oggettiva di esistere.
         Ma ciò che più colpisce (scandalizza) leggendo queste sacre sentenze, è la degenerazione della Carità. Ho detto come mai gli estensori di questi testi si riferiscono sinceramente, o almeno con una certa passione, a Dio e alle sue ragioni: Fede e Speranza vi hanno spazio solo in quanto fondamenti di regole: fondamenti a cui non si risale mai, deferendo alle autoritià – cioè san Tommaso o qualche luminare di diritto canonico a noi ignoto – la responsabilità normativa del fatto. Quanto al rapporto tra Fede e Speranza e i codici che ne sono nati (nella fattispecie, i codici che regolano gli annullamenti del matrimonio, e che definiscono quindi il matrimonio), i giudici non entrano mai nel merito. È vero che il piano puramente pratico su cui essi operano potrebbe consentire loro una giustificazione in proposito: ma, su tale piano pratico, se essi possono ignorare Fede e Speranza, non possono però ignorare la Carità.
         Ed ecco l’orrore. La Carità, che è il più alto dei sentimenti evangelici, e l’unico autonomo (si può dare Carità senza Fede e Speranza: ma senza Carità, Fede e Speranza possono essere anche mostruose), viene qui degradata a pura misura pragmatica, di un qualunquismo e di un cinismo addirittura scandalosi. La Carità pare nor servire a niente altro che a scoprire gli uomini nella loro più squailida e atroce nudità di creature: senza né perdonarli né capirli, dopo averli così crudelmente scoperti. Il pessimismo verso l’uomo terreno è troppo totale per consentire l’empito del perdono e della comprensione. Esso getta un’indistinta luce plumbea su tutto. E non vedo niente di meno religioso, anzi, di più ripugnante, di questo.

    * 20 sentenze della Sacra Rota, a cura di Stelio Raiteri, prefazione di Giorgio Zampa, Giorgio Borletti Editore. 1974.

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