Nel capitalismo il fatto di essere produttivo e’ una determinazione del
lavoro che non ha assolutamente nulla a che vedere, in se’ per se’, col
particolare contenuto, con la particolare utilita’ del lavoro stesso, o
con il particolare valore d’uso in cui questo si rappresenta…E’
produttivo quel lavoratore che produce plusvalore per il capitalista,
ossia che serve all’autovalorizzazione del capitale. Un maestro di
scuola e’ un lavoratore produttivo se non si limita a lavorare le teste
dei bambini, ma se si logora di lavoro per arricchire l’imprenditore
della scuola. Che questi abbia investito il suo denaro in una fabbrica
d’istruzione invece che in una fabbrica di salsicce, non cambia nulla
alla relazione.
Milton, che scrisse il "Paradiso perduto", era per esempio un
lavoratore improduttivo; ma lo scrittore che fornisce lavoro di
fabbrica al suo editore e’ un lavoratore produttivo. Milton creo’ il
suo poema al modo stesso che il baco da seta genera la seta, cioe’ come
estrinsecazione della sua natura; poi vendette per 5 sterline il suo
prodotto e cosi’ divenne trafficante di merci. Ma il
letterato-proletario di Lipsia che produce libri (per esempio, compendi
di economia politica) su comando del proprio editore si avvicina ad
essere un lavoratore produttivo nella misura in cui la sua produzione
e’ sottoposta al capitale e ha luogo al solo fine di valorizzarlo. Una
prima-donna che canta come un uccello e’ una lavoratrice improduttiva;
nella misura in cui vende per denaro il suo canto, si trasforma in
salariata o in trafficante in merci. Ma la stessa cantante che un
impresario ingaggia perche’ lei canti e lui ci guadagni sopra, e’ una
lavoratrice produttiva, perche’ produce direttamente capitale.
Per
Marx, il capitale trova dei limiti nello sfruttare direttamente questo
genere di lavori per il fatto che i servizi o i valori d’uso da essi
forniti apparivano difficilmente, o molto ristrettamente, trasformabili
in prodotti separabili dai produttori e quindi capaci di circolare
come merci autonome. Oggi, le nuove basi tecniche, della produzione di
valore rendono possibile far assumere un carattere distinto, separato
dal produttore, a prestazioni intellettuali, artistiche, creative ecc.
Attualmente,
ad esempio, non e’ piu’ un caso
insignicante, rispetto all’insieme della produzione capitalistica che
il capitale traffichi in sapere, che negli istituti di cultura gli
insegnanti siano puri e semplici salariati dell’impresario della
fabbrica della formazione. La produzione delle idee, delle
rappresentazioni, delle forme di coscienza, dei
pensieri e dello scambio spirituale fra gli uomini diventano parte
integrante della produzione di valore, qualcosa di subordinato
all’organizzazione e alla disciplina dell’attivita’ economica.
L’economia, attraverso le nuove tecnologie
elettronico-informatiche, e’ in grado di
estendere il suo dominio alla produzione e alla distribuzione della
conoscenza, delle idee e perfino all’elaborazione dell’illusione.
Immaginare, pensare, conoscere…anche le "immagini nebulose che si
formano nel cervello dell’uomo", diventano lavoro produttivo, che
produce valore di scambio, cioe’ denaro, capitale.
Uno stesso lavoro (per esempio, quello del giardiniere, del sarto ecc.)
puo’ essere eseguito da un medesimo operaio per conto o di un
capitalista industriale o di un consumatore immediato. In entrambi i
casi quell’operaio e’ un salariato o un giornaliero; ma nel primo caso,
e’ un lavoratore produttivo e nel secondo un lavoratore improduttivo,
perche’ in quello produce capitale e in questo no; perche’ in quello il
suo lavoro costituisce un elemento del processo di valorizzazione del
capitale e in questo no. Per la definizione di "lavoro produttivo" il
contenuto, la natura del valore d’uso del lavoro e’ del tutto
indifferente, non e’ che un mezzo per far quattrini, per produrre
plusvalore.
"Poiche’, con lo sviluppo della sussunzione reale del lavoro al
capitale e quindi del modo di produzione specificatamente
capitalistico, il vero funzionario del processo lavorativo totale non
e’ il singolo lavoratore, ma una forza lavoro sempre piu’ socialmente
combinata, e le diverse forze lavoro cooperanti, che formano la
macchina produttiva totale, partecipano in modo diverso al processo
immediato di produzione delle merci o meglio, qui, dei prodotti- chi
lavorando piuttosto con la mano e chi piuttosto con il cervello, chi
come direttore, ingegnere, tecnico ecc., chi come sorvegliante, chi
come manovale o come semplice aiutante-, un numero crescente di
funzioni della forza-lavoro si raggruppa nel concetto immediato di
lavoro produttivo, e un numero crescente di coloro che ne sono veicolo
nel concetto di lavoratori produttivi, direttamente sfruttati dal
capitale e sottomessi al suo processo di produzione e valorizzazione."
La combinazione sociale del lavoro conferisce alla produzione un
carattere sempre piu’ scientifico e sia le scienze, secondo il loro
grado di applicabilita’ tecnica, e i loro portatori, i lavoratori
intellettuali, vengono integrati nel lavoratore produttivo
complessivo. Il lavoro intellettuale non puo’ piu’ essere considerato
come rispecchiamento, idealisticamente trasfigurato, del lavoro
astratto e rappresentare ancora una qualche forma organizzativa
piccolo-borghese del processo scientifico.
L’integrazione oggettiva dell’intellighenzia scientifica nel
lavoratore produttivo complessivo tuttavia non trasforma ancora i suoi
componenti in proletari coscienti. Il livello di sviluppo tecnologico
delle scienze che possono essere applicate alla produzione proietta la
sua metodologia su tutte le scienze, distruggendo la riflessione pur di
ottenere l’adeguamento al lavoro astratto. Dire che le scienze
diventano tecnologiche significa che il tempo qualitativo della
riflessione, proprio di una storia della formazione viene eliminato per
adeguare il lavoro intellettuale alle norme quantitative e
destoricizzate della misura del valore, del tempo di lavoro. In tal
modo il lavoro intellettuale puo’ essere incorporato senza attriti nel
processo di valorizzazione del capitale.
Il lavoro intellettuale, cioe’ nella misura in cui e’ traducibile in
attivita’ industriale, e’ sempre piu’ colpito dalla disgrazia di essere
lavoro produttivo e, d’altra parte, nella misura in cui e’ traducibile
in tecnica, e’ uniformato alle norme del valore, in maniera sempre piu’
adeguata al capitale. Eppure la distruzione della coscienza culturale
tradizionale apre la strada a processi di riflessione proletari, alla
liberazione cioe’ dalle finzioni idealistiche della proprieta’, e cio’
rende possibile anche ai produttori scientifici di riconoscere nei
prodotti del loro lavoro il potere oggettuale ed ostile del capitale e,
in se stessi, degli sfruttati. L’intellighenzia tecnica e scientifica
non puo’ ancora continuare ad assumere forme di coscienza del tutto
astoriche e piangere la perdita della sua fittizia proprieta’ della
cultura borghese di cui -pur senza volerlo ammettere- conosce
l’irrevocabile tramonto.
Anche formalmente l’attivita’ del pensiero viene modellata secondo le
regole della produzione del valore di scambio. Le stesse forme della
coscienza vengono assoggetate al dominio della produzione di merci…
L’eliminazione della frattura tra cultura e produzione ha anche una
funzione disciplinare, negando in maniera alienata e apparente
l’antagonismo fra l’individualita’ e le condizioni economiche e
sociali
della sua esistenza (che costituiva un’elemento essenziale
dell’individualia’ stessa). "Per riassume in una sola frase la
tendenza
immanente all’ideologia della cultura di massa bisognerebbe
rappresentarla in una parodia del detto <<diventa cio’
che
sei>> come raddoppiamento e giustificazione
supervalidante della
situazione comunque esistente, restando cassata ogni prospettiva di
trascendenza e di critica. Lo spirito socialmente operante ed efficace
si limita qui a mettere un’altra volta sotto gli occhi degli uomini
quel che gia’ costituisce la condizione della loro esistenza,
proclamando pero’ questo esistente come sua propria norma (…)". Cio’
che e’, e’ anche cio’ che deve essere. L’ideologia dominante non
trascende nulla, giustifica e convalida preventivamente lo stato di
fatto, lo doppia a mezzo di immagini e rappresentazioni e lo offre al
culto e alla contemplazione delle masse. Ovunque il pensiero non vede
che corrispondenze sostanziali tra essere e dover essere, tra reale e
possibile, essenza e fenomeno, interno ed esterno e solo nell’azione
estetica sorge la differenza e la pluralita’ in tutta la sua
temporalita’, dispersione e contingenza ma essa non tocca i rapporti
sociali dominanti.
Quando non c’e’ coscienza/lotta di classe i lavoratori decadono alla piu’ misera
delle merci, il proletariato si trasforma nella miseria inconsapevole
della propria miseria fisica e spirituale, la disumanizzazione diventa
inconsapevole di essere disumanizzazione. Nell’abiezione,
nell’estraniazione ogni proletario si sente a proprio agio come in un illusorio al
di la’ dove scompaiono le contraddizioni della sua
"personalita’" con la situazione della sua vita, la quale
situazione e’ la negazione aperta, decisa, completa del suo
"essere". Allora, esso tenta di liberare se stesso senza sopprimere le
condizioni di vita inumane della societa’ moderna, condizioni che si
riassumono nella sua situazione e si libera solo
nell’immaginazione e l’immaginazione va al potere. La produzione reale
della sua vita gli appare come qualcosa di presociale, di separato dal
rapporto dell’uomo con gli altri uomini e mediata solo dalla
elaborazione tecno-scientifica della natura.
Gli individui svuotati da ogni fine che non sia l’autoconservazione, la
propria indefinita sopravvivenza, adottano il cieco culto della
"societa’ reale", si adattano intenzionalmente con l’ambiente sociale:
Adattarsi diventa il principio universale della civilta’ e come scrive
M. Horkheimer: "se non esiste altra norma fuorche’ lo status quo, se la
ragione non sa offrire altra speranza furoche’ di conservare cio’ che
esiste cosi’ com’e e persino di accrescerne la pressione, l’istinto
mimetico non e’ veramente superato: gli uomini vi ritornano in forma
regressiva e deformata…Le masse dominate si identificano facilmente
con la forza che le domina…reagiscono all’oppressione con
l’imitazione, con un desiderio implacabile di perseguitare; e questo
desiderio viene poi utilizzato per mantenere in vita il sistema che gli
da’ origine. Sotto questo aspetto l’uomo moderno non e’ diverso
dall’uomo del medioevo fuorche’ nella scelta delle vittime(…)
le idee degli operai tendono a modellarsi sull’ideologia affaristica
dei loro capi. All’idea dell’intrinseco conflitto fra l’esistenza
dell’ingiustizia sociale e le masse lavoratrici si sotituiscono
concetti relativi alla strategia dei conflitti fra diversi gruppi di
potere… almeno quelli che non sono passati per l’inferno del
fascismo, sono sempre pronti a dar man forte alla persecuzione di un
capitalista o di un politico, presi di mira perche’ hanno violato le
regole del gioco; ma non pensano neanche lontanamente a discutere il
valore delle regole. Hanno imparato a considerare l’ingiustizia
sociale-persino all’interno del loro gruppo- come un dato di forza, e a
considerare i dati di forza come l’unica cosa che va’ rispettata. La
loro mente e’ inaccessibile a sogni di un mondo fondamentalmente
diverso…."
Un tempo la realta’ era messa a confronto con l’ideale
elaborato
dall’individuo che si supponeva autonomo; e si supponeva che la realta’
venisse plasmata in conformita’ di quell’ideale. Oggi, nuove, presunte
avanguardie del pensiero, come gia’ annunciato
circa 70 anni fa’ da T.W.Adorno, non vogliono sentir parlare di
ideologie e cosi’ facilitano l’innalzamento della realta’ al grado di
ideale. L’etichetta di ideologia oggi documenta solo l’ira e il
disprezzo della "societa’ reale" contro tutto cio’ che, sia pure nella
forma della riflessione ideale e per quanto impotente, richiama la
possibilita’ di un ordine migliore di quello costituito. Oggi, la falsa
coscienza (intreccio indiviso di verita’ e controverita’), socialmente
condizionata, non e’ piu’ spirito obiettivo, nel senso che non si viene
piu’ cristallizzando ciecamente e
anonimamente sulla base del processo sociale: al contrario si tratta di
qualcosa di scientificamente adatto alla societa’.(…) di
addestramento
al conformismo esteso fino alle emozioni piu’ intime e sottili.
Dell’ideologia non resta piu’ nulla se non il riconoscimento
tributato a cio’ che sussiste, un insieme di modelli di comportamento
di adeguazione allo strapotere delle condizioni dominanti (…) I
singoli si risentono fin dall’inizio come pedine del gioco-e si mettono
il cuore in pace. Ma da quando l’ideologia non asserisce quasi piu’
null’altro se non che le cose sono come sono anche la sua specifica non
verita’ si assottiglia al povero assioma che esse non potrebbero essere
diversamente da come sono.
Di "critica dell’ideologia" (
raffronto dell’ideologia con la sua intima verita’) e’ possibile
parlare solo nella misura in cui l’ideologia contenga un elemento di
razionalita’, cui la critica possa rifarsi. Chi volesse criticare per
questa via l’ideologia totalitaria del capitalismo reale o del
nazionalsocialismo sarebbe vittima della propria ingenuita’. In queste
ideologie non si rispecchiano forme dello spirito obiettivo, della
falsa coscienza in se’ necessaria, ma il loro "patrimonio ideale" e’
solo il risultato di una manipolazione e’ solo uno strumento di potere.
La "critica dell’ideologia" in termini hegeliani, come "negazione
determinata, raffronto di entita’ ideali con la loro realizzazione", in
questi casi e’ impossibile. La critica dell’assolutismo ideologico, del
capitalismo o del nazionalsocialismo non e’ riducibile alla
confutazione di tesi a cui non pretendono affatto ad autonomia ed
interna coerenza, ma deve analizzare piuttosto a quali configurazioni
psicologiche esse vogliono richiamarsi, per servirsene, quali effetti
esse vogliono produrre negli uomini.
L’ideologia in senso proprio
si ha dove vigono rapporti di potere non trasparenti a se stessi,
mediati, e , sotto questo aspetto, anche addolciti: ma per tutto cio’
la societa’ attuale, a torto accusata di eccessiva complessita’, e’
divenuta troppo trasparente. Questa trasparenza e’ cio’ che meno
volentieri si ammette.
Oggi il concetto di ideologia e’ stato
neutralizzato e la sua critica si e’ trasformata nel sabotaggio teorico
di ogni forma di coscienza nel relativismo. La cultura, nella misura in
cui e’ qualcosa di piu’ che "scienza naturale meccanicistica", perde
ogni carattere di verita’, per risolversi in una molteplice
razionalizzazione di interesse e gruppi quali si vogliano, che vi
trovano una giustificazione in tutte le variabili immaginabili. La
critica dell’ideologia cosi’ e’ stata trasformata nella legge della
giungle dello spirito, la verita’ e’ nient’altro che una funzione del
potere di volta in volta trionfante.
L’ideologia si risolve in
psicologia, ritorna nella sfera privata rifacendosi agli "uomini
senz’altro" e non alle figure concrete della loro socializzazione. Si
rinuncia a giudicare e ci si presta ottimamente alle ideologie
totalitarie e si sottomette ogni prodotto di cultura ad una finalita’
propagandistica o commerciale, di dominio. E’ il trionfo del cinismo.
La
liberta’ d’opinione scade nel relativismo dove e’ lecito a ognuno di
pensare quel che vuole, sia o non sia vero, giacche’ ciascuno pensa in
sostanza quel che meglio vale ad avvantaggiarlo e a permettere la sua
affermazione. In tal senso il liberalismo politico e’ lo stato
totalitario si nutrono, anche se in forme diverse, della stessa cultura.
A
questo punto e’ inevitabile, avendo rinunciato a giudicare, ridotto
l’ideologia alla sua sfera privata, che vada di moda l’affermazione che
ogni critica dell’ordine costituito e’ una costruzione concettuale
arbitrariamente imposta dall’alto alle cose, una "metafisica", e che
invece bisogna "attenersi ai dati di fatto atomici". La conoscibilita’
di una struttura totale della societa’ e’ negata per principio e
preventivamente. Un velo si frappone tra la societa’ e la comprensione
sociale della sua natura.
All’ideologia come prodotto
spirituale che insorge dal processo sociale come qulacosa di autonomo,
sostanziale e dotato di una sua legittimita’, che insieme e’ un
intreccio di non-verita’( pretende di negare la propria base sociale) e
di verita’ (autonomia propria di una coscienza che e’ piu’ della mera
impronta lasciata da cio’ che e’, e mira a penetrarlo) e’ stata
sostituita da un amministrazione pianificata della totalita’ di
prodotti che riempiono oggi in gran parte la coscienza degli uomini,
dalla produzione di oggetti confezionati per adescare le masse in
quanto consumatrici e se possibile modellare e fissare a volonta’ il
loro stato di coscienza. Qui non c’e’ nessun spirito autonomo fattosi
inconsapevole delle propeie implicazioni sociali.
L’ideologia non e’ piu’ un guscio, ma
l’immagine stessa, minacciosa, del mondo del mero esistere; l’ideologia
e la realta’ corrono una
verso l’altra; perche’ la realta’ data, in mancanza di un’altra
ideologia piu’ convincente, diventa ideologia di se’
medesima:"basterebbe allo spirito un piccolo sforzo per liberarsi dal
velo di
questa parvenza onnipotente e pur nulla: ma questo sforzo pare di tutti
il piu’ difficile."
La realtà in cui viviamo
è essa stessa ideologia, nel senso che non corrisponde al
concreto, ma è il prodotto di definizioni,
dalla classe dominante per costruire la realtà a propria
immagine, cioè secondo i propri bisogni. Tanto meno queste norme
e questi provvedimenti rispondono alle esigenze dell’intera
comunità, tanto più essi agiscono come strumento di
dominio sulla classe che li subisce. Così come ogni ipotesi
utopica, in quanto elemento contraddittorio di una realtà che
non può rivelare le sue contraddizioni perché non vuole
trasformarle, si traduce in una ideologia della trasformazione,
realizzabile se usata come strumento di dominio.
Nella nostra struttura sociale, determinata da una logica cui sono
subordinati tutti i rapporti e le regole di vita, non esiste né
la realtà, cioè il "praticamente vero"su cui verificare
le ipotesi come risposte reali ai bisogni, né l’utopia come
elemento
ipotetico che trascenda la realtà per trasformarla.
L’utopia
può esistere solo nel momento in cui l’uomo sia riuscito a
liberarsi dalla schiavitù della realta’-ideologia, in modo da esprimere
i
propri bisogni in una realtà che si riveli costantemente
contraddittoria e tale da contenere gli elementi che consentano di
superarla e trasformarla. Solo allora si potrebbe parlare di
realtà come del "praticamente vero", e di utopia come elemento
prefigurante la possibilità di una trasformazione reale di
questo "praticamente vero". Ma allora non si tratterebbe più di
una utopia, quanto di una ricerca costante sul piano dei risposte più
adeguate alla costruzione di una vita possibile per tutti gli uomini."
Nella realta’-ideologia, in cui le contraddizioni reali degli individui
vengono smembrate in qualita’ di problemi di tecnici ed affidate ad
esperti in un gioco perverso di oggettivazione e mercificazione di se’,
lo spirito socialmente operante ed efficace si limita a mettere sotto
gli occhi degli uomini quel che gia’ costituisce la condizione della
loro esistenza, proclamando pero’ questa esistenza un valore e una
norma. La sopravvivenza della religione e della famiglia-che
rimane la forma principale del retaggio del potere di classe- e dunque
della repressione morale che essa assicura, possono combinarsi come
unica cosa, con l’affermazione ridondante del godimento di questo
mondo, questo mondo essendo prodotto solo come pseudogodimento che
sostiene in se’ la repressione. All’accettazione beata dell’esistente
puo’ anche unirsi come unica cosa, la rivolta puramente spettacolare:
cio’ traduce il semplice fatto che l’insoddisfazione e’ divenuta essa
stessa merce, dal momento che l’abbondanza economica si e’ trovata in
grado di estendere la sua produzione fino al trattamento di una tale
materia prima.
All’interno della medesima logica (del capitale)
la "trasformazione’ e’ il perpetuo mutamento formale delle cose senza
che ne venga mai intaccata la struttura, una celebrazione perpetua
della potenza e dell’irresistibilita’ di un falso movimento, di una
dinamica apparente. La realta’ data, in mancanza di un’altra ideologia
piu’ convincente, diventa ideologia di se medesima e in virtu’ di
questa sua configurazione trapassa nel terrorismo:
"L’oppressione si muove sempre a due livelli: o l’uccisione e il
massacro, o l’imposizione di nuovi valori e ideologie che servono come
strumenti di manipolazione per mascherare la violenza dell’uccisione e
del massacro.(…)
mistificazioni scientifiche o non. Si uccide, si tortura e si elimina
chi ha scoperto il gioco e cerca gli strumenti adeguati per uscirne.
Questi tipi diversi di violenza (esplicita, legittimata dalle ideologie
scientifiche,diluita e mascherata sotto la copertura
dell’organizzazione assistenziale) sono le diverse modalità di
controllo in rapporto ai diversi gradi di sviluppo di un paese. Ma
sono, insieme, anche compresenti e contemporanei, nel senso che, nei
momenti di crisi, viene scelta la modalità di intervento e di
repressione più adatta a garantire il controllo, e non importa
più se si passa esplicitamente da un controllo fondato
sull’analisi psicologica dei conflitti, alle uccisioni in massa. Chi ha
il potere trova sempre il modo di legittimare la
violenza, semplicemente imponendola e magari fondendo insieme i diversi
strumenti di cui dispone, fino ad arrivare a "umanizzare la tortura",
dello psicologo o dell’assistente sociale."
(lib. da K. Marx,T.W.Adorno, F.Basaglia, j.H.Krahll, M.Horkeimer)