<<Non vado più avanti perché non ne
posso più, non vado più avanti aspirante del
cazzo>>
(gridato nel giugno 1917 un soldato durante una marcia verso le prime
linee)
Se ti rivasse notizia che sono morto, non dire che sono morto per la
Patria, ma che sono morto per i signori, cioè per i richi
che sono stati la causa di tanti buoni giovani, la colpa della sua
morte.
(Lettera di un soldato, aprile 1917)
Il
Ministro della Difesa ha annunciato che il 4 novembre, festa
militarista voluta ed istituita dal fascismo, tornera’ ad
essere "una vacanza"… Non un giorno di riflessione sulla carneficina
del 1914-1918
ma della retorica patriottica, del
militarismo, delle sfilate con
le bandiere sui cadaveri di cui e’ cosparsa la storia d’europa e
d’italia. Il governo ripristinera’ "la festivita’" nella ricorrenza
"della vittoria italiana nella Grande guerra(1) " che diventera’ anche
il "Giorno
dell’Unità Nazionale" e "Giornata delle Forze
Armate":Glorificazione della guerra e del nazionalismo, di quel "patriottismo
dinamico" che diede il meglio di se’ nella fucilazione di
massa di quell’umanita’ che diserto’ la ferocia delle trincee
scavate in
nome di una logica di potenza che non gli apparteneva e nella
quale non si riconosceva.
I padroni oggi detengono anche la proprieta’ privata della storia, il
monopolio del senso e del significato degli eventi e’ impongono la loro
"neolingua" dove il massacro e la carneficina di massa miracolosamente,
passando per l’oblio della memoria sociale, si trasformano in
"vittoria", "sentimento di unita’ nazionale". "L’epica" simbiosi di
politica, economia e guerra, cioe’ di denaro e morte, viene
rispolverata per ri-plasmare ideologicamente, disciplinare moralmente,
gerarchizzare produttivamente le relazioni sociali che in epoca di
crisi economica traballano e si sfaldano. Il profitto vuole una
societa’ civile irregimentata, militarmente ideologizzata pronta allo
"sforzo corale" "nell’assiduo impegno", nel "senso del dovere spinto
fino all’estremo sacrificio", "nell’unita’ nella
specificita’" di "un’identita’ nazionale" da trincea, legittimata nei
riti religiosi…"dal dover di patria
e dall’amor cristiano".
Non e’ una coincidenza che il governo
abbia deciso di dare, nel corso di queste celebrazioni militariste,
valore e importanza all’operazione "caserme aperte" che rimuove
"simbolicamente" le barriere e i confini tra "zone militari" e "aree
civili", tra militari e popolazione civile. L’economia si accorda sulla
metafora della guerra, e’ una macchina da guerra, il profitto
vuole i suoi soldati…e, come disse J. P. Sartre, "Quando i ricchi si
fanno la guerra, sono i poveri a morire." Sempre che i poveri non decidano di disertare…
Non ci sono patrie, non ci sono confini, non ci sono soldi per cui vale
la pena di morire.
"Il
soldato italiano, che non aveva partecipato alle radiose
giornate di maggio si trovò sbattuto a combattere una guerra
non sua, in condizioni critiche tali da modificare il suo animo. Le
condizioni di una guerra che ebbe molti episodi di autentica
carneficina, spinsero questi uomini a tentare le vie più
disperate per lasciare quell’inferno: la fuga, la diserzione,
l’autolesionismo, il suicidio furono modi, tentativi per
fuggire dall’orribile esperienza della guerra. Uno stato
gendarme, superiori insensibili, spesso pazzi sanguinari costituivano
ulteriore elemento per distruggere la psichiche e l’animo di
quegli uomini."
In Italia,
il 3 novembre 1917, Cadorna scrive al presidente del Consiglio che alla
vigilia di Caporetto
<<più di centomila disertori»
vagavano nella penisola, «infestando le campagne, seminando
ribellione nelle città e dovunque propagando sconforto.
Nell’ultimo anno di guerra il primo ministro Orlando ritiene che il
fenomeno delle diserzioni sia "impressionante".(Piero Melograni, 1969,
Storia politica della grande guerra 1915-1918)."
I
piani italiani di aprire un fronte di guerra contro l’Austria-Ungheria
nelle alpi si risolse in un fallimento "principalmente perche’ molti
soldati italiani non erano motivati a combattere per uno stato che non
consideravano il loro, la cui stessa lingua era parlata da pochi di
loro."
Dietro la retorica e la mitologia risorgimentalista che ancora oggi
accompagna il ricordo ufficiale della carneficina del 1915-18 si
nascondono esecuzioni sommarie, decimazioni, disparità di
trattamento della giustizia militare nei confronti della truppa e degli
ufficiali…la «tremenda memoria delle esecuzioni
ingiuste»…"Ancor più ferrea la morsa
sull’esercito
dove la disciplina è applicata con una durezza che rasenta
la crudeltà:
in 3 anni e mezzo di guerra le denunce ai tribunali militari
arriveranno a 870.000 e ben 209.000 saranno le condanne di cui 15.000
all’ergastolo e 4.000 alla pena di morte. Il delitto più
grave è
naturalmente l’insubordinazione agli ordini; ma è
sufficiente solo la
traccia di una resistenza per incorrere in sanzioni durissime che si
trasformano in esecuzioni sul posto e nella decimazione, se a
disubbidire è un intero reparto. Sono sistemi barbari,
applicati
nell’esercito francese solo in rarissimi casi e che non esistono in
quello inglese.
Il comando supremo delle forze armate italiane è
però convinto che solo
le minacce, la paura e le punizioni esemplari possono costringere a
combattere una truppa demotivata e riottosa, ostile alla guerra e
insofferente all’autorità degli ufficiali." (Simona Colarizi
, docente di storia contemporanea all’Università "La
Sapienza"-Roma)
I militari in occasione di questa celebrazione del militarismo
insegneranno nelle scuole, in circa 200 licei italiani, la storia della
prima guerra mondiale…:
Come disse Don Milani nella sua autodifesa in un processo che lo vedeva
imputato per istigazione all’obiezione di coscienza e alla diserzione
(lettera ai cappellani militari-"l’obbedienza non e’ piu’ una virtu’ ma
la piu’ subdola delle tentazioni"):
"Quando andavamo a scuola noi i nostri maestri, Dio li perdoni, ci
avevano bassamente ingannati. Alcuni poverini ci credevano davvero: ci
avevano ingannati perché erano a loro volta ingannati. Altri
sapevano di ingannarci, ma avevano
paura. I più erano forse solo superficiali. A sentir loro
tutte
le guerre erano "per la Patria". I nostri maestri si dimenticavano di
farci notare una cosa lapalissiana e cioè che gli eserciti
marciano agli ordini della classe dominante (…)
Non posso non avvertire i miei ragazzi che i loro infelici babbi hanno
sofferto e fatto soffrire in guerra per difendere gli interessi di una
classe ristretta (di cui non facevano nemmeno parte!) non gli interessi
della Patria (…)
Alcuni mi accusano di aver mancato di rispetto ai caduti. Non
è
vero. Ho rispetto per quelle infelici vittime. Proprio per questo mi
parrebbe di offenderli se lodassi chi le ha mandate a morire e poi si
è messo in salvo. (…) Del resto il rispetto per i morti
non
può farmi dimenticare i miei figlioli vivi. "
Scrive Bruna Bianchi in i "disobbedienti
nella grande guerra": "Se gli atti di aperta ribellione, la
fuga dal fronte o il rifiuto di rientrare dalle licenze erano forme di
disobbedienza che raramente poterono sfuggire alla giustizia militare,
le intese con il nemico, le tregue informali, i comportamenti volti a
ostacolare la strategia della continua tensione, riuscirono spesso a
sottrarsi al controllo dei superiori. Lo conferma la documentazione
processuale; dalle sentenze che discussero i reati di agevolazione
colposa del nemico e, nel caso degli ufficiali, di mancata sorveglianza
sulle truppe emerge che intese, contatti,
scambi erano prassi consuete, durate a lungo prima di venire
alla luce.
Fin dai primi mesi di guerra, nonostante l’immagine diffusa
dalla propaganda di un nemico barbaro e crudele, non erano rari su
tutti i fronti gesti di avvicinamento tra combattenti delle opposte
trincee. Quando la neve, la pioggia, il fango, i cadaveri insepolti
esaurivano le energie dei soldati e allentavano il ritmo
dell’aggressione quotidiana, la vicinanza e la curiosità
favorivano i dialoghi e gli scambi di saluti. Che aspetto aveva il
nemico? Qual era il suo stato d’animo? Quali sentimenti nutriva verso
la guerra? Come affrontava le miserie e i disagi della vita di trincea?
A poco a poco, in maniera imprecisa, si faceva strada la consapevolezza
di condividere con gli uomini della opposta trincea la stessa
condizione di isolamento ed estraniazione, affiorava un vago sentimento
di solidarietà, un desiderio di conoscere come i nemici
vivevano le stesse esperienze estreme.Bastavano fuggevoli contatti per
scoprire di aver avuto a lungo una immagine astratta dei nemici; essi
apparivano ugualmente affamati, laceri e affranti, nutrivano lo stesso
desiderio di pace e di riposo, provavano lo stesso senso di
pietà per i feriti. Nelle lettere, nelle memorie gli episodi
di fraternizzazione sono sempre descritti con grande
intensità emotiva.
"In una ricognizione
di pattuglia eseguita la notte della Vigilia di Natale potetti
acciuffare una dozzina di austriaci che placidamente dormivano in una
grotta […]. Ebbene detti soldati non erano uomini, ma scheletri, non
mangiavano da due giorni per mancanza di pane. Intanto i miei soldati
con sollecitudine offrirono loro delle pagnotte e alla vista di quel
ben di Dio per loro, allegri presero la via delle nostre linee. Non
dimenticherò mai in vita mia quei baci ricevuti dai nostri
nemici."
In alcune memorie di guerra, accanto alla sensazione di condividere con
gli uomini delle opposte trincee le stesse condizioni di vita e lo
stesso destino, affiora talvolta una percezione più
profonda: se fosse stato possibile prolungare quei momenti, soffermarsi
sui sentimenti di condivisione, l’aggressione non sarebbe
stata più possibile.
Tregue e fraternizzazioni generalmente prendevano il via da circostanze
eccezionali, ebbero vita breve e vennero immediatamente
soffocate. Il desiderio di pace e di sottrarsi
all’aggressione quotidiana si espresse nel corso del
conflitto in forme sempre meno esplicite e aperte; in seguito ai
provvedimenti repressivi i soldati impararono a comunicare
indirettamente o in modo meno visibile. Si concordarono sistemi per
segnalare imminenti aggressioni da parte della propria artiglieria: i
soldati inviavano messaggi innalzando cartelli, gli ufficiali
avvertivano le truppe che giungevano a dare il cambio dell’esistenza di
taciti accordi di non aggressione.
Un esempio è offerto dal
procedimento giudiziario nei confronti di un capitano, denunciato dal
suo comandante per non aver ordinato di far fuoco su alcuni austriaci
intenti a lavori di rafforzamento delle proprie difese. Si imputava
inoltre al capitano di aver tranquillamente attraversato un posto di
vedetta austriaco e di non essersi curato di controllare lo stato di
efficienza dei reticolati, tanto che due soldati nel marzo 1917 avevano
disertato passando al nemico. Il capitano in istruttoria
dichiarò di essere convinto che nel suo settore vigesse
«per mutuo accordo la consuetudine di non
sparare».
Inoltre affermò che sia il capitano del
225° fanteria, al quale dette il cambio, sia i capitani
[…] del 144° lo avevano informato che in quel
settore regnava da gran tempo la massima calma, fino al punto che lo
sparo di un sol colpo di fucile sarebbe stato considerato come un
allarme."
"Per noi il rifiuto della guerra e della sua preparazione militare,
industriale, psicologica, e’ una componente fondamentale del lavoro per
la trasformazione generale della societa’. Percio’ lavoriamo in queste
due direzioni:
1. spingere a costituire dappertutto forme di controllo dal basso:
2. orientare e alimentare questo controllo con idee e iniziative
contrarie al capitalismo, al colonialismo, all’imperialismo."
(A.Capitini-il potere di tutti)
1) Il 14 aprile del
1912 l’orchestra continuò a suonare fino alla fine
mentre
il Titanic affondava. I più poveri erano stati rinchiusi
nelle stive: le poche scialuppe di salvataggio spettavano ai ricchi.
Con il Titanic naufragava un secolo intero, l’800 con la sua
fede
positivista in un
indefinito progresso scientifico e tecnologico. Due anni piu’ tardi le
nazioni si scannarono fra
di loro e scienza e tecnologia furono usate per rendere piu’ efficenti
i massacri di massa.
La prima guerra mondiale segno’ "il crollo della civilta’ occidentale
dell’ottocento. Questa civilta’ era capitalista nell’economia, liberale
nella struttura istituzionale, borghese nell’immagine
caratteristica della classe che deteneva l’egemonia sociale.
Era
una civilta’ che si gloriava dei progressi della scienza , del sapere e
che credeva nel progresso morale e materiale; era anche profondamente
persuasa della centralita’ dell’europa, luogo d’origine delle
rivoluzioni nelle scienze, nelle arti, nella politica e nell’economia;
la sua economia si era diffusa in tutto il mondo cosi’ come i suoi
soldati avevano conquistato e assoggettato la maggior parte dei
continenti.(…) Senza il crollo della societa’
borghese ottocentesca nell’Eta’ della catastrofe, non ci
sarebbero
stati ne’ la Rivoluzione d’Ottobre ne’ l’Unione Sovietica. Senza la
crisi della societa’ borghese, il sistema economico improvvisato col
nome di sistema socialista sulle rovine della struttura rurale
eurasiatica dell’ex impero zarista non avrebbe considerato se stesso,
ne’ sarebbe stato considerato dagli altri, come una realistica
alternativa mondiale all’economia capitalistica." (Eric. J. Hobsbawm-il
secolo breve)