Entrare fuori Uscire dentro

Entrare fuori. Uscire dentro.
(scritta sui muri del DSM Trieste)

Tra le questioni attuali e fondamentali per tutta l’umanita’, c’e’ la questione del rapporto fra sapere e potere. Il problema del rapporto fra le collettivita’ umane e la potenza sempre crescente di una tecnoscienza che si presenta come un potere anonimo, irresponsabile e incontrollabile dominata da una razionalita’ strumentale per la quale la domanda: come distruggere l’umanita’? ha lo stesso valore della domanda: come salvarla? Chi potrebbe oggi sostenere che l’insieme degli obiettivi e delle priorita’ della ricerca scientifica rispondono a scelte responsabili, lucide? E poi, "lucide scelte" per chi"? Gli scienziati in quanto tali che potere decisionale hanno quando per lo piu’ sono i politici e le grandi multinazionali ad avere mano libera sui bilanci della ricerca? Ma non si tratta solo di questo. Nessuno puo’ illudersi che la tecno-scienza onnisciente sarebbe in pratica interamente buona basta liquidare i suoi cattivi padroni o i malvagi che la deviano dai suoi obiettivi autentici. Il problema e’ piu’ complesso e non coinvolge solo la dimensione degli "interessi particolari" o della "manipolazione economica" della scienza e riguarda il senso del sapere per la collettivita’ umana, dell’immagine di un sapere che rifiuta le domande relative ai suoi oggetti e al suo rapporto con la societa’. La scienza nel suo complesso, dinnanzi alla catastrofe ambientale, oggi dovrebbe interrogarsi sul suo atteggiamento nei confronti del mondo e dell’esistenza, sulle sue modalita’ di pensiero sempre piu’ strumentali e tecnologizzate. I mezzi non sono piu’ separabili dai fini da quando all’espansione crescente dei "domini puntuali" della scienza si accompagna la piu’ grande cecita’ e impotenza di fronte alla totalita’ delledegli effetti di questi "domini puntuali". Il mondo forse e’ conoscibile in modo illimitato ma evidentemente non e’ manipolabile all’infinito.

Il "soggetto sel sapere scientifico" e’ un soggetto essenzialmente sociale che porta in se i segni, le difficolta’, gli errori e i fallimenti della societa’ e della cultura nel quale si sviluppa. La conoscenza scientifica, in virtu’ delle sue "regole del gioco" (rispetto dei dati, dei criteri di coerenza, di verifica empirica) certo non puo’ venir ridotta alle condizioni della sua elaborazione, alle sue radici socio-culturali, e tuttavia  non e’ neppure pensabile nei termini di una "scienza ripulita", epurata da ogni presupposto e appartenenza culturale, sociale e storica. La scienza e’ sempre parte integrante di una cultura che comporta una "visione del mondo", un modo di percepire e tagliare il reale, di riflettere il mondo e la vita e di questo bisogna tener conto anche se sarebbe ridicolo credere che essa si risolva in una pura e semplice "ideologia" o in una "sovrastruttura". Non si puo’ ignorare che la scienza oggi e’ una massiccia e potente istituzione posta al centro della societa’ e della produzione di ricchezza, che i poteri creati dall’attivita’ scientifica sfuggono totalmente agli stessi scienziati; che questi poteri mentre si frantumano al livello della ricerca poi si trovano riconcentrati al livello degli interessi economici. Non e’ possibile separare la scienza dalla societa’ ed ignorare la relazione circolare che essa instaura con la tecnica, lo spazio e il dominio sociale. Se il gioco scientifico della verita’ e dell’errore e’ superiore, in particolare nelle "scienze esatte", dove a differenza delle "scienze umane" la verifica sperimentale e’ sempre possibile, non si puo’ non vedere che questo gioco avviene ed e’ condotto all’interno di un universo ideologico, religioso, politico, economico.

L’impiego tecnologico della scienza, l’organizzazione stessa della ricerca scientifica, si presenta oggi come proprieta’ dei poteri economici e come qualcosa di esterno al controllo della societa’ nel suo complesso. La trasformazione dei processi di produzione della ricchezza in processi scientifici e la moltiplicazione della loro potenza produttiva infatti e’ posta non al servizio dei bisogni umani ma delle grandi multinazionali, non al servizio dell’interesse generale ma di quello particolare dei poteri economici. Che la scienza sia diventata il principale fattore di produzione della ricchezza significa anche che il "lavoro intellettuale" diventa traducibile in attivita’ economica, che esso e’ costretto ad integrarsi senza residui nel processo di valorizzazione del capitale, a diventare "tecnologico", a privarsi del tempo qualitativo della riflessione, proprio di ogni storia della formazione, per adeguarsi alle norme quantitative e destoricizzate del tempo di lavoro salariato, del denaro. La rappresentazione dello sviluppo tecnoscientifico in una forma pura, mitizzata, idealizzata e spogliata dalle concrete connessioni con gli elementi generali e determinanti dell’organizzazione sociale capitalistica appare evidentemente per quella che e’ una mistificazione. La raffigurazione dell’avanzare della conoscenza scientifica come una serie di stadi di sviluppo di una "oggettiva razionalita’" e’ una posizione non meno ideologica ed ingenua di quella che pretende di ridurre la scienza ad una "sovrastruttura". Non c’e’ nessuna "fatalita’ tecnologica" che inevitabilmente conduce alla catastrofe ecologica e alla morte per fame di milioni di esseri umani ma sicuramente vi e’ la responsabilita’ di quella razionalita’ economica che non conosce altro movente che il profitto e che ormai si e’ dsipoticamente proiettata sull’intera societa’ e in tutte le sfere dell’esistenza.

La societa’ appare sempre piu’ come un luogo in cui i processi di riproduzione sociale, della forza-lavoro, della sua formazione e valore d’uso, sono inestricabilmente inseparabili dalla produzione della ricchezza…Tuttavia la razionalita’ economica che regge e orienta dispoticamente i comportamenti collettivi appare sempre piu’ ristretta e povera rispetto alle capacita’ di cooperazione sociale, scambio ed elaborazione di informazioni e conoscenze che essi esprimono. Le relazioni sociali sono diventate troppo ricche per essere pacificamente ricondotte al rapporto capitalistico, alle sue determinazioni quantitative e monetarie. La "crisi della politica" esemplifica proprio la incapacita’ o la impossibilita’ di una mediazione, di una sintesi da parte capitalistica della organizzazione sociale tra lo sviluppo della comunicazione, della conoscenza diffusa e le sue esigenze di conservazione e riproduzione. Il comando del profitto e della sua logica, attraverso il mercato del lavoro, sui comportamenti sociali si presenta sempre piu’ fragile. E’ di fronte a questo limite e a questa debolezza del potere di sintesi politica del capitalismo che oggi assistiamo a un irrigidimento del controllo, alla tentatazione di ritornare alle forme violente e segregazioniste del comando sulla societa’ (manicomio, carcere, "militarizzazione" del territorio). La connessione fra ordine pubblico, controllo sociale e accumulazione d’impresa e’ sempre piu’ stretta. Sia lo Stato che il lavoro salariato (come principio d’ordine dell’esistenza) fanno fatica ad adeguarsi ai livelli di cooperazione sociale sviluppatisi nell mutamento dei rapporti di produzione.

E’ evidente che i soggetti che emergono dalla trasformazione dei processi produttivi sono uomini reali, e cioe’ uomini che intrattengono reciprocamente nuove relazioni e mutano, sono costretti a mutare radicalmente se stessi; e’ evidente che essi si differenziano all’estremo per necessita’ e desideri e che per loro e sempre piu’soffocante la camicia di forza dell’astrazione quantitativa del lavoro salariato, dei "diritti dell’uomo", dei "diritti del cittadino" fondati sul mercato del lavoro e sulla mercificazione dell’esistenza, sulla intercambiabilita’ delle prestazioni. L’uguaglianza possibile non e’ piu’ quella dell’equivalenza generale delle merci, dell’astrazione del denaro ma quella materiale dell’autonomia individuale. Autonomia che non significa eliminazione del discorso dell’altro ma la sua rielaborazione, che non si riduce alla magra consolazione: <<dopotutto l’altro fara’ quel che vorra’>> ma, che e’ consapevole realizzazione di un’impresa collettiva per superare le condizioni sociali, materiali, ideologiche, istituzionali, violente ed oppressive che capovolgono ogni evidenza mettendo la societa’ al servizio di interessi particolari invece che al servizio di tutti. L’autonomia, la possibilita’ di autodeterminazione individuale, reclama oggettivamente la costituzione della societa’ come "spazio pubblico", che appartiene a tutti, e che non e’ la faccenda privata degli "specialisti", dei politici, della burocrazia…ma che garantisce liberta’ di parola e di pensiero determinati dal coraggio e dalla responsabilita’. Una liberta’ di pensiero e di parola fondati "sul coraggio e la responsabilita’" perche’ altrimenti come accade oggi la societa’ e’  uno spazio pubblico solo per la propaganda, la mistificazione e la pornografia. Non sono le leggi o le disposizioni giuridiche a poter cambiare questa distorsione dello "spazio pubblico" ma solo l’educazione, cioe’ la presa di coscienza del fatto che la societa’ siamo anche noi, che il suo destino dipende anche dalla nostra riflessione, dal nostro comportamento e dalle nostre decisioni.

Si deve evitare di fissare ancora la "societa’" come un’astrazione di fronte all’individuo dal momento che la sua manifestazione di vita, anche se non in maniera diretta, e’ una affermazione e una manifestazione di vita sociale. L’autonomia individuale non e’ possibile se la societa’ non si riconosce come la fonte delle proprie norme e non si tratta delle elezioni politiche ma, della messa in discussione effettiva della societa’ e delle sue istituzioni. Si tratta di riconoscere e tradurre in pratica lo sviluppo delle condizioni collettive che permettano a tutti gli individui di imparare a governare se stessi.
E’ vano volere una societa’ democratica se la possibilita’ di uguale partecipazione al potere politico non e’ trattata dalla collettivita’ come un compito la cui realizzazione la riguarda. Se non si e’ in grado di passare dall’uguaglianza dei diritti all’uguaglianza delle condizioni di esercizio e assunzione effettiva di questi diritti, se la societa’ non e’ in grado di mettere in discussione le istituzioni date, le rappresentazioni del mondo gia’ stabilite.
La giustizia, la liberta’, l’autonomia individuale e collettiva, l’uguaglianza non sono "la risposta" o una soluzione date una volta per tutte all’istituzione della societa’ ma, sono un valore e l’idea che fa nascere le questioni, che implicano il problema di sapere cosa esige di volta in volta l’uguale partecipazione di tutti al potere. Non si tratta di valori da assumere come un’ideologia scontata ma di una domanda e di una pratica di trasformazione e lotta sempre aperti, della messa in discussione del dominante rapporto tra sapere e potere.
 
In Italia una delle figure piu’ importanti che ha analizzato la relazione sapere-potere e che ha sperimentato a livello pratico la possibilita’ della rottura di questo binomio e’ stato Franco Basaglia, il padre ideale delle ragioni e dei metodi che hanno portato all’emanazione della "legge 180" (13 maggio 1978), una legge che chiudeva i manicomi e apriva alla speranza che la societa’ potesse tentare di vivere quella contraddizione dell’uomo rappresentata dalla "follia" in un modo pienamente umano, al di fuori dei modelli repressivi e violenti dell’internamento e delle istituzioni totali.
Oggi che riemerge quello che Basaglia chiamava "il fascino discreto del manicomio" e delle istituzioni totali come risposta principale al disagio e alle questioni sociali e che la democrazia si e’ chiusa nella dimensione dei diritti del cittadino-spettatore e’ importante ricordare i "contenuti sovversivi della memoria", dell’esperienza etica, politica e scientifica di F. Basaglia. Il suo costante richiamo al "praticamente vero", alla necessita’ che la trasformazione e il cambiamento sociale partano da ciascuno di noi, dal nostro fare e dal nostro modo di essere. Per Basaglia lavorare al cambiamento sociale significa essenzialmente superare i rapporti di oppressione, vivere la contraddizione del rapporto con l’altro, accettare il conflitto come un valore positivo. Situarsi nello spazio di una contraddizione aperta in cui soltanto si crea quello "stato di tensione" che puo’ rappresentare l’inizio vero di un mondo nuovo. La trasformazione sociale nell’emancipazione e nella liberazione umana comprende la necessita’ di rompere il binomio potere-sapere e insieme quella di assumere un nuovo atteggiamento nella lotta che sia capace di congedare i "depositari della cultura tradizionale" insieme ai "gruppi politici onnipotenti" (i rivoluzionari di ruolo) che si dichiarano detentori della "vera teoria" e aprioristicamente considerano illusione una pratica locale-puntuale che e’ capace di rivelare le contraddizioni del sistema anche quando non lo combatte direttamente in uno scontro frontale e militaresco.

Come Basaglia insegnava, oggi e’ piu’ che mai necessario tenere aperto il campo del possibile, agire per alterare il famoso "rapporto di foza", parlare all’immaginario sociale fuori da ogni logica della vittoria e della sconfitta e al di la’ di sterili attese messianiche.
Infatti, "Non ci sono liberatori da attendere", ne’ soluzioni messianiche ("la rivoluzione", "la fine della lotta di classe" etc) che possono sostituire la lotta immediata contro gli effetti del potere sulle persone. E’ solo attraverso questo modo di lottare che si puo’ mettere in discussione la propria condizione individuale, affermare il proprio e altrui diritto ad essere "diversi", ad essere cioe’ veramente degli individui. E’ con la lotta immediata, sottratta ad esoteriche trascendenze politico-religiose, che si arriva, al di la’ di mitiche ricomposizioni artificiali, ad attaccare cio’ che isola l’individuo e spezza i suoi legami con gli altri. E’ in questa forma di lotta che si mettono daavvero in discussione i privilegi legati al sapere, le defomazione e le immagini mistificanti imposte alla gente, il modo in cui circola e funziona il sapere e i suoi rapporti con il potere. E proprio in questa dimensione  di "resistenza attiva" che Basaglia individua una opposizione concreta e pratica alle astrazioni dello Stato, dell’economia politica e "dell’inquisizione scientifica" che non tengono e non vogliono tener conto di chi realmente siamo individualmente. La rivolta per Basaglia e’ sempre una rivolta nella vita quotidiana che e’ capace di segnare gli individui, trasformare la loro identita’ e renderli dei soggetti. E’ nel quotidiano che si dispiegano simultaneamente le dimensioni del dominio (sociale, etnico, religioso), ed e’ in esso che ci si puo’ battere concretamente contro lo sfruttamento contro cio’ che sottomette l’individuo assoggettandolo a identita’ e individualizzazioni forzate ed e’ qui che la messa in discussione della "neutralita’ della scienza" non viene subordinata alla risoluzione della "contraddizione primaria" (capitale e lavoro). Se si crede in cio’, se si rifiuta questo livello di lotta, inevitabilmente si arriva ad accettare l’obiettivita’ della scienza in certi settori, con i suoi specifici strumenti tecnici come se non si trattasse di una parte dei tanti strumenti di manipolazione della classe subalterna; si arriva a misconoscere la validità e l’incisività politica di una critica che agisce sulle contraddizioni stesse della scienza partendo da una pratica che ne mette in crisi il suo lato ideologico.

La speranza non deve essere messianica, perche’ il messia e’ sempre un falso profeta. La speranza deve stare in noi, come espressione delle nostre contraddizioni. "E’ chiaro che il nostro compito e’ cambiare la societa’ perche’ vogliamo vivere e vogliamo che il malato viva. Tuttavia non possiamo restare nell’illusione che, una volta cambiata la societa’, noi potremo vivere meglio di quanto viviamo oggi. Certamente vivremo meglio, ma ci sara’ sempre una contraddizione fra quello che siamo e quello che vorremmo essere, fra quella che e’ la nostra <<oggettivita’>> e quella che e’ la nostra <<soggettivita’>>. L’uomo e’ sempre sconfitto a questo livello:non ottiene mai di esprimere cio’ che vuole. La sfida del mondo e la sfida dell’uomo e’ sempre stata quella di poter trovare una maniera di esprimersi."

"In un certo senso, viviamo in una societa’ che sembra un manicomio e siamo dentro questo manicomio, internati che lottano per la liberta’. Ma non possiamo sperare nei liberatori, perche’ se speriamo in loro ancora una volta saremo imprigionati e oppressi. Il fatto che di fronte alle esigenze di liberta’ il potere propone delle pseudoliberta’ che sono ancora una volta strumenti di controllo- significa certamente che siamo sempre in una situazione di pericolo, che viviamo in una organizzazione sociale in cui ogni conquista di liberta’ puo’ rovesciarsi in una nuova oppressione. Ma se capire questo e’ importante, non significa che ci si deve rassegnare e che non si puo’ far nulla dato che il potere recupera tutto…"
"Certo l’organizzazione sociale, il potere hanno sempre la possibilita’ di recuperare le trasformazioni. Ma il potere non e’ infinito. E’ molto difficile recuperare la pratica, mentre e’ molto facile recuperare l’ideologia. Allora dobbiamo stare attenti a cio’ che consideriamo rivoluzionario, che non e’ creare ideologie ma riflettere sulle cose che in pratica trasformiamo. Questo e’ molto difficile da recuperare. La cosa importante e’ dimostrare che l’impossibile e’ possibile" e non giocare a fare le star della liberazione. Per dirla con Foucault: "il fatto che non si possa mai essere <<fuori dal potere>> non vuol dire che si e’ intrappolati dappertutto."

L’analisi basagliana del rapporto sapere-potere supera il limite formale (teorico) per situarsi in uno spazio strategico e politico, come quello della segregazione istituzionale del "folle", nel quale si mostrano concretamente queste connessioni anche circolari del sapere con quelle che potremmo chiamare le cristallizzazioni dell’economia del potere. Il rapporto sapere-potere appare qui nella sua relazione effettiva con una societa’ determinata nella quale gli individui vengono considerati "risorse" o "beni economici" e in cui la conoscenza scientifica collabora con il potere "all’amministazione repressiva dello spazio collettivo" e della popolazione. Le istituzioni disposte tecnologicamente al governo sociale nell’economia del potere si presentano sempre (cosi’ la conoscenza di cui si servono e che al tempo stesso alimentano) come meccanismi di "oggettivazione" degli individui e dunque di "assoggettamento". Il sapere qui e’ proprio quel potere di analisi che rende efficace all’ennesima potenza le istanze della sorveglianza: elabora informazioni, classifica le persone, descrive la condotta degli individui; opera ripartizioni differenziali ( serve a definire l’individuazione eteronoma delle persona: chi o deve essere, come caratterizzarlo, come riconoscerlo; come esercitare su di lui, in maniera individuale, una sorveglianza costante…)…

Basaglia avverte che per trasformare praticamente le istituzioni sociali (non solo quella psichiatrica) bisogna trasformare il rapporto fra individuo e societa’ nel quale si inserisce il rapporto fra salute e malattia, il rapporto fra sfruttamento ed emancipazione umana, ffra sapere e potere. Per fare questo innanzitutto bisogna riconoscere che la finalita’ prima di ogni azione e’ l’uomo ( Non l’uomo astratto, ma tutti gli uomini), con "i suoi bisogni, la sua vita e dunque, che "la malattia, come ogni altra contraddizione umana, può essere usata come strumento di appropriazione o di alienazione di sé, quindi come strumento di liberazione o di dominio; che ciò che determina il significato e l’evoluzione di ogni azione è il valore che si riconosce all’uomo e l’uso che si vuol farne, da cui si deduce l’uso che si farà della sua salute e della sua malattia; che in base al diverso valore e uso dell’uomo, salute e malattia acquistano o un valore assoluto (l’uno positivo, l’altro negativo) come espressione dell’inclusione del sano e dell’esclusione del malato dalla norma; o un valore relativo, in quanto avvenimenti, esperienze, contraddizioni della vita che si svolge tra salute e malattia. Quando il valore è l’uomo, la salute non può rappresentare la "norma" se la condizione umana è di essere costantemente fra salute e malattia."

Con questo richiamo al "valore dell’uomo" Basaglia non vuol dire che non si deve tener conto dei processi fondamentali dell’uomo e delle contraddizioni umane o che la malattia mentale non esista ma che e’ necessario capire e mettere in discussione l’uso che ne viene fatto all’interno della logica dello sfruttamento e del privilegio. Comprendere la "faccia sociale" che assume la malattia e’ insieme capire la genesi di strutture terapeutiche che non rispondono alla malattia ma solo al suo "doppio" (ideologico-reale) che viene costruito come risposta alle esigenze della produzione e del consumo e non come risposta ai bisogni reali dell’individuo. La conoscenza scientifica fornendo le basi per tecniche "che si fondano sull’universale per fini particolari", consapevolmente o no, si rende oggettivemente complice di una razionalizzazione ideologica, di un uso politico delle contraddizioni umane che non mira a dare loro una risposta reale ma a renderle funzionali ad un’organizzazione sociale costituita secondo le esigenze del capitale. Il problema dell’oppressione e dell’istituzionalizzazione non riguarda solo il malato mentale ma la struttura sociale nel suo complesso in cui il sapere si conserva e cambia solo attraverso una relazione di potere ("e’ ovvio che uno schizofrenico e’ uno schizofrenico, ma innanzitutto e’ un uomo che ha bisogno di affetto, di denaro, di lavoro: e’ un uomo totale, e noi dobbiamo rispondere non alla sua schizofrenia ma al suo essere sociale e politico"). Fin quando le istituzioni servono l’economia e non l’uomo, il cittadino astratto e non l’individuo concreto la relazione di potere restera’ lo strumento fondamentale per risolvere ogni contraddizione fra sapere e potere e manchera’ nelle istituzioni sociali e nella societa’ quella relazione di reciprocita’, di liberta’ fra le persone che evita di trasformare il sapere in potere dispotico dell’uomo sull’uomo, cosa che che impedisce di mutare le condizioni della salute, della vita…diventando tutti soltanto "sempre piu’ folli, sempre piu’ malati, sempre piu’ bambini  e non "persone, perche’ chi comanda determinera’ il nostro pensiero in una unica direzione…".

(l’Organizzazione Mondiale della Sanità ci informa che un giovane su cinque in Occidente soffre di disturbi mentali, e che nel 2020 i disturbi neuropsichiatrici cresceranno in una misura superiore al 50 per cento, divenendo una delle cinque principali cause di malattia, di disabilità e di morte)

Una scienza creata per rispondere ai bisogni delle persone, una ricerca che si pone il problema di come aiutare l’uomo ad affrontare le contraddizioni dell’esistenza non sara’ possibile nella misura in cui le conoscenze, le scoperte, non verranno socializzate; non sara’ possibile finche’ il "progresso delle scienze", il "progresso della civilta’", avviene in nome di concetti astratti di "uomo" e di "umano". Fin quando accade questo lo sviluppo della conoscenza scientifica e del sapere saranno la risposta a dei bisogni di un uomo che non esiste; "questo progresso può continuare a svilupparsi come progresso della tecnologia, dell’industria, del grande capitale che dell’uomo e della sua vita non sa che farsene, se non sfruttarlo e ridurlo alla sua logica il meno scopertamente possibile. E allora è umano il progresso, se l’industria e il capitale sono in fase di espansione; così come sono umani il regresso, l’austerità, il regime di economia che riportano l’uomo a vecchi valori perduti (come nel caso della recente falsa crisi energetica), nei momenti di crisi dell’industria e del capitale. Secondo le circostanze favorevoli o sfavorevoli, è la logica economica a stabilire ciò che è umano e ciò che non lo è, ciò che è sano e ciò che è malato, ciò che è bello e ciò che è brutto, ciò che è corretto e ciò che è riprovevole."

Perche’ il problema della scienza ci riguarda tutti? Innanzitutto perche’ nel capitalismo tutto utilizza la potenza della scienza applicata alla tecnologia e non si puo’ fare niente e cambiare niente senza incontrarla e farci i conti. Essa e’ implicata dappertutto nella mercificazione delle capacita’ umane e dei rapporti sociali. La scienza non si limita a interpretare il mondo ma lo trasforma , e’ uno dei principali mezzi di produzione e sarebbe davvero reazionario e stupido cercare risorse per cambiare la societa’ dappertutto tranne che nello sviluppo della razionalita’ scientifica.

Se si considera la malattia mentale una contraddizione dell’uomo che puo’ verificarsi in qualsiasi tipo di societa’ ("quelli che dicono che la malattia mentale non esiste, e che in questo modo vogliono negare l’esistenza della follia sono degli imbecilli che non hanno il coraggio di portare fino in fondo l’analisi della vita che viviamo."), si puo’ anche dire che ogni societa’ fa’ della malattia quello che piu’ le conviene ed e’ "la faccia sociale che ne viene costituita che sara’ determinante nel suo evolversi successivo. " E’ in questi termini che si puo’ parlare di uno stretto rapporto fra psichiatria e politica, perche’ la psichiatria difende i limiti di norma definiti da un’organizzazione politico-sociale. Se e’ vero che la politica non guarisce i malati, si puo’ paradossalmente rispondere che pero’ ci si ammala con una definizione che ha un preciso significato politico, nel senso che la definizione di malattia serve, in questo caso, a mantenere intatti i valori di norma messi in discussione. Che poi chi cade sotto le sanzioni piu’ rigide nel momento in cui oltrepassa il confine, sia sempre chi non dispone di uno spazio privato dove poter esprimere – al sicuro- la propria devianza, non e’ che una conseguenza del tipo di organizzazione sociale in cui siamo inseriti.

(…) Lo psichiatra agisce sempre nella sua doppia delega di uomo di scienza e tutore dell’ordine. Ma i due ruoli sono in contraddizione reciproca, dato che l’uomo di scienza dovrebbe tendere a curare e salvaguardare l’uomo malato, mentre il tutore dell’ordine tende a salvare e difendere l’uomo sano. Quale dei due poli prevale nel ruolo della psichiatria?(…)
Nessuno sostiene che la malattia mentale non esiste, ma la vera astrazione non e’ nella malattia cosi’ come puo’ manifestarsi, ma nei concetti scientifici che la definiscono senza farvi fronte come fatto reale. Che cosa significa schizofrenia, psicopatia o devianza, se non dei concetti astratti e irreali, l’assolutizzazione di una nostra mancata comprensione della contraddizione che siamo noi e che e’ la malattia? Che cosa sono le definizioni se non il tentativo di risolvere in concetti astratti queste contraddizioni, che si riducono soltanto a merce, etichetta, nome, giudizio di valore e che serve a confermare una differenza?"

La realtà in cui viviamo è essa stessa ideologia, nel senso che non corrisponde al concreto, ma è il prodotto di definizioni, codificazioni, classificazioni, norme e provvedimenti, messi in atto dalla classe dominante per costruire la realtà a propria immagine, cioè secondo i propri bisogni. Tanto meno queste norme e questi provvedimenti rispondono alle esigenze dell’intera comunità, tanto più essi agiscono come strumento di dominio sulla classe che li subisce. Così come ogni ipotesi utopica, in quanto elemento contraddittorio di una realtà che non può rivelare le sue contraddizioni perché non vuole trasformarle, si traduce in una ideologia della trasformazione, realizzabile se usata come strumento di dominio.
Nella nostra struttura sociale, determinata da una logica economica cui sono subordinati tutti i rapporti e le regole di vita, non esiste né la realtà, cioè il "praticamente vero" su cui verificare le ipotesi come risposte reali ai bisogni, né l’utopia come elemento ipotetico che trascenda la realtà per trasformarla. L’utopia può esistere solo nel momento in cui l’uomo sia riuscito a liberarsi dalla schiavitù dell’ideologia, in modo da esprimere i propri bisogni in una realtà che si riveli costantemente contraddittoria e tale da contenere gli elementi che consentano di superarla e trasformarla.
Diversamente "la funzione della teoria e’ sempre adeguata alla struttura e un intervento tecnico risulta efficace solo nel caso che questa coincidenza venga rispettata. Cio’ significa che tendenzialmente a un dato livello di sviluppo economico, corrisponde un linguaggio scientifico adeguato ed una adeguata realta’ istituzionale. Oppure che le elaborazioni scientifiche di avanguardia o mettono in crisi la struttura su cui si trovano ad agire per l’impossibilita’ concreta di portare oltre il proprio discorso teorico pratico; o che sono assorbite come linguaggio puramente ideologico, che serve da alibi all’immobilita’ presente, adeguata al successivo livello di sviluppo". L’intervento "tecnico-scientifico", "come nuova ipotesi che mette in discussione la realta’ in atto, allora puo’ trovare la sua verifica pratica solo nel momento in cui diventa funzionale alla fase successiva dello sviluppo socio-economico generale, trovando- insieme alla verifica- anche la sua morte nell’assolutizzazione dell’ipotesi primitiva."

Le diverse modalità di controllo, legittimate dalle codificazioni scientifiche, sono in rapporto ai diversi gradi di sviluppo di un paese. A diversi livelli di sviluppo tecnologico e sociale produttivo vengono scelte e sviluppate modalita’ di intervento e repressione piu’ adatte a garantire il controllo, cosa che comunque non esclude la compresenza e la contemporaneita’ di diverse forme d’intervento anche contraddittorie fra di loro. Chi ha il potere trova sempre il modo di legittimare la violenza e il discorso scientifico si presta alla razionalizzazione delle contraddizioni sia sia che in un momento di "crisi" si attui per lo piu’ un controllo fondato sulla violenza repressiva, sulle uccisioni di massa, sia che si attui un controllo fondato sull’analisi psicologica dei conflitti,"fino ad arrivare a "umanizzare la tortura", garantendo al torturato l’assistenza dello psicologo o dell’assistente sociale." Il punto e’ che in ogni caso il "problema reale" sara’ portato ad una dimensione ideologica e l’avallo della scienza consentira’ al capitale di trasformare le contraddizioni che non puo’ non produrre all’interno della sua dinamica in un oggetto di autoriparazione.

"Se un sistema sociale è fondato sul mantenimento di una logica economica che non soddisfa i bisogni di tutti; se l’uomo astratto in nome del quale si invocano e si reclamano le trasformazioni e le riforme non corrisponde a "tutti gli uomini", l’inefficiente, l’handicappato, il fragile e anche il fragile morale, cioè il "diverso" (è inutile ripetere che si tratta sempre del diverso appartenente alla classe subalterna) vengono eliminati, cancellati, perché per loro sono impossibili recupero e riabilitazione. Le risposte a questi problemi non possono dunque essere che repressive, a una sola direzione, mai dialettica. L’aumento del personale addetto alla repressione e al controllo, la preparazione più specializzata dei tecnici della repressione, l’incrudimento dell’organizzazione poliziesca sono le uniche misure preventive che un sistema sociale come il nostro può progettare. All’aumento della criminalità e della devianza non si può che rispondere con l’aumento dei poliziotti e degli psichiatri, perché queste sono le uniche misure che consentono di non mettere in discussione le proprie istituzioni e i propri valori, come risposta alla messa in discussione implicita (anche se più o meno consapevole) in ogni comportamento deviante."

Se si vuole affrontare il problema della marginalità e della devianza dobbiamo affrontarlo in rapporto alla struttura sociale, alla divisione innaturale sulla quale tale struttura si fonda e non come fenomeni isolati che si pretende di far passare quali semplici anomalie individuali, cui una certa percentuale della popolazione ha la sfortuna di essere soggetta.

Teorie scientifiche e istituzioni sembrano esplicitamente finalizzate, le une a individuare e isolare questi fenomeni sotto la mistificazione della risposta specialistica; le altre a confermarne, attraverso una pratica distruttiva, il carattere definitivo e irriducibile. Di fatto, entrambe sono finalizzate a individuare e a confermare la "diversità naturale" dei fenomeni, attraverso lo stesso processo attuato – a priori – nella divisione in classi, matrice per ogni altra successiva divisione. Limitando l’analisi al solo campo delle ideologie e delle istituzioni destinate al controllo della devianza – carceri e manicomi – (ma il processo è ovviamente analogo per ogni altro istituto del nostro sistema sociale), il fenomeno negativo, cioè il comportamento anomalo in termini di asocialità responsabile o malata, viene isolato in modo che l’individuo che lo esprime "diventi" solo quel fenomeno, come non si trattasse di un momento di un processo in cui sono implicati storia, ambiente, valori, rapporti e processi sociali in cui ogni vita individuale è sempre coinvolta.

Una visione completamente falsa dell’uomo in cui la vita e la sua organizzazione sociale sono totalmente espulse dal suo "corpo malato" sostiene la medesima violenza e oppressione che esiste nella vita quotidiana. L’uomo e’ una contraddizione. E’ questa contraddizione che ci fa essere uomini, altrimenti saremmo animali. Per il malato come per noi c’e’ una contraddizione pratica fra cio’ che siamo e cio che ci circonda. La medicina, le scienze, se la nostra societa’ vuole cambiare devono cominciare ad utilizzare un "nuovo modello di uomo" conscio del fatto che l’uomo oltre che un corpo, e’ un prodotto di lotte, e’ un corpo sociale oltre che un corpo organico.

Aprire il manicomio non vuol dire nulla. Lo si puo’ fare senza problemi in modo burocratico: se il potere vorra’ distruggere tutti i manicomi che ci sono, lo fara’ perche’ come li ha costruiti puo’ anche distruggerli. Gira e rigira e’ sempre la stessa merda, e noi dobbiamo rifiutarci di finire sempre sotto la stessa ruota: Vogliamo invece che la medicina, la scienza, esprimano qualcosa che va oltre il corpo, qualcosa che sia espressione del sociale, qualcosa che prenda in considerazione l’organizzazione nella quale viviamo. L’uomo non e’ un fatto esclusivamente psicologico o esclusivamente corporeo. Non e’ nemmeno un fatto solo sociale. Esso e’ il risultato di una integrazione di tutti questi livelli e se la conoscenza scientifica non prende in considerazione tutti questi fattori allo stesso tempo biologici, psicologici, sociali non si liberera’ mai dalla sua coincidenza repressiva con una societa’ di classe.

Quando la psichiatria fa coincidere "’l’oggettivita’ del disturbo" con il "disturbo del comportamento sociale" corpo organico e corpo sociale vengono omologati. Sia il malato del corpo organico che il malato del corpo sociale non possono piu’ esprimere la loro soggettivita’ ma solo la loro oggettivita’ di cose malate. Questa razionalita’ scientifica e’ radicata in una concezione del corpo riducibile a mero organismo non raffigurabile come un’entita’ complessa, dinamica e molteplice. E’ in questa comprensione riduttiva dell’essere umano che si alimenta quella rete di rapporti di potere che fissano gli individui ad una mortificante volonta’ di sopravvivenza, di angoscia e paura dell’altro, che gli fa dimenticare le loro ragioni di vita e li imprigiona in un sistema di potere paranoico tutto teso ad una volonta’ di autoconservazione in cui prevale l’immobilita’, l’assenza dell’altro. In una volonta’ di autoconservazione, di sopravvivenza, che perde ogni rapporto con gli altri e si trasforma in una forza distruttiva ed autodistruttiva, nel "sacrificio di se’".

Attraverso questo tipo di razionalizzazione scientifica che si incarica di fornire gli alibi per la riduzione dei corpi ad oggetti devitalizzati la realta’ si trasforma in realta’-ideologia e le contraddizioni perdono il loro carattere umano. E la scienza non fa che fornire giustificazioni a questa distruzione dell’esperienza propriamente umana quando pone come "oggetto " della sua ricerca non l’uomo nella sua totalita’, qualcosa che e’ anche un prodotto storico-sociale, ma delle "deviazioni psichiche", "una malattia" presa come un "accidente", come un fenomeno naturale: delinquenti si nasce, la pazzia e’ il prodotto di una alterazione biologica dalla quale non rimane che tutelarsi. Cosi’,  "Nessuno è responsabile, nessuno è coinvolto, così come davanti alla violenza di certi fenomeni naturali. L’individuo diventa "tutto malato" o "tutto delinquente" e se anche questa totalità negativa è costruita artificialmente dall’assolutizzazione dell’uno o dell’altro degli elementi in cui l’uomo è stato artificialmente scomposto, sarà poi su questa totalità negativa che si attua e si conferma l’esclusione sociale."

Per "questi delinquenti" e per "questi pazzi" il nostro sistema sociale non può organizzare il recupero, altrimenti sarebbe un altro sistema sociale, non fondato sulla divisione innaturale. Quando si progettano trasformazioni e riforme all’interno della medesima logica, il risultato è identico. Si parla del nascere di una nuova criminalità di cui non si indagano cause ed implicazioni sociali nella caduta di valori, nelle attese sempre frustrate, nelle promesse mai mantenute, nello scontento per una vita che si fa sempre più critica, impossibile, sempre più priva di significato, sempre più violenta e repressiva, dove la lotta per la sopravvivenza si fa sempre più difficile. Se non si tiene conto di questa premessa fondamentale, ogni volta ci si limita a formulare nuove catalogazioni, nuove divisioni tra criminalità più o meno grave, arrivando a creare nuovi regolamenti e nuove istituzioni identici ai precedenti. Così come, davanti all’insorgere di nuove forme di devianze e di comportamenti anomali, che possono essere il sintomo del rifiuto di una vita invivibile, si trovano nuove codificazioni nosografiche, nuovi termini tecnici secondo cui catalogarle, aggiornati magari da qualche vago riferimento ad un ipotetico «sociale» che garantisca di affrontare le problematiche in termini attuali, moderni. Tanto, carcere e manicomio continuano a conservare la loro natura emarginante, di classe."

Conoscere comporta "informazione", possibilita’ di sciogliere delle incertezze ma la conoscenza non si riduce a delle informazioni, essa ha necessita’ di "strutture teoriche" per poter dar senso alle informazioni. Se queste "strutture" non sono socializzate e rese disponibili alla portata di tutti, se restano chiuse nell’esoterismo delle competenze iperspecializzate degli "esperti" viene a mancare la possibilita’ di riflettere collettivamente, di rifiutare la manipolazione ideologica delle contraddizioni reali e si continua un gioco sociale di specchi dove: "La malattia, la devianza, la fame la morte devono diventare altro da cio’ che sono, perche’ la contraddizione che esse rappresentano possa risultare una conferma della logica del sistema in cui sono inglobate. Alla morte allora si puo’ rispondere con la scienza della morte; alla fame con l’organizzazione della fame:mentre la morte resta morte e la fame, fame. Non esistono risposte ai bisogni: cio’ che si tenta e’ sempre e solo la loro organizzazione e razionalizzazione. La Fao come risposta ideologica alla realta’ della fame , lascia inalterata la realta’ dell’affamato, lasciando inalterato il processo che produce insieme fame e abbondanza. Cosi’ l’organizzazione della malattia non e’ la risposta all’ammalato e chi tenta -in questo contesto- di rispondere direttamente al bisogno primario (chi tenta di rispondere alla malattiae non alla sua organizzazione e alla sua definizione) viene accusato di negare l’esistenza del bisogno stesso, quindi di negare l’esistenza della malattia nel momento in cui non la riconosce nel doppio che ne e’ stato fabbricato. E’ attraverso questo processo di razionalizzazione e organizzazione dei bisogni che l’individuo e’ privato della possibilita’ di possedere se stesso (la propria realta’, il proprio corpo, la propria malattia). In questo senso possedere si trasforma automaticamente in un essere posseduto, poiche’ non si tratta del superamento di una contraddizione, ma della razionalizzazione in termini di produzione di cui e’ oggetto. In questa dinamica l’individuo non puo’ arrivare a possedere la propria malattia, ma vive la sua collocazione nel mondo come malato; vive cioe’ il ruolo passivo che gli viene imposto e che conferma la frattura fra se’ e la propria esperienza."

"Che gli intellettuali e i tecnici di una società borghese, così come tutte le sue istituzioni, esistano per salvaguardare gli interessi, la sopravvivenza del gruppo dominante e i suoi valori, è cosa ovvia. Ma non è altrettanto automatico riconoscere e individuare, nella pratica quotidiana, quali siano i processi attraverso i quali gli intellettuali o i tecnici continuano a produrre – ciascuno nel proprio settore – ideologie sempre nuove che mantengono inalterata la loro funzione di manipolazione e di controllo. Soprattutto non è altrettanto automatico che la classe subalterna, anche la più politicizzata, riconosca nella scienza e nelle ideologie la manipolazione e il controllo di cui è oggetto, e non invece un valore assoluto, che accetta perché al di là della propria possibilità di conoscere e di comprendere, e perché manipolata in modo da non conoscere, né comprendere. "
Questo significa non tanto compiere l’impresa di astratte elaborazioni teoriche quanto mutare i rapporti pratici che possono generare nuovi modi di comprensione cognitiva, l’essere non tanto per principi universali o presunti tali quanto l’agire in rapporto a circostanze e interessi concreti e specifici.

"Capire, insieme a coloro che sono oggetto di questa manipolazione (pur con le ambiguità presenti in chi è contemporaneamente soggetto di manipolazione e ne rifiuta l’uso nel senso della delega), e rendere praticamente espliciti i processi attraverso i quali un’ideologia scientifica riesce a far accettare alla classe subalterna misure che apparentemente rispondono ai suoi bisogni e che, di fatto, la distruggono (in questo consistono le ideologie) può essere forse politicamente più efficace, anche se meno avventuroso, del fingersi gli operai che non siamo, o del prendere a prestito da loro le motivazioni alla lotta, quando il terreno in cui agiamo ci coinvolge in una serie di complicità, la cui natura non è esplicita né riconoscibile da chi le subisce. Il rifiuto del ruolo, il rifiuto della delega comportano un uso dialettico del ruolo e della delega, attraverso la critica della scienza e delle ideologie di cui i tecnici non accettano più di essere garanti."

"La critica teorico-pratica della scienza in quanto ideologia (cioè in quanto strumento di manipolazione in vista del consenso) comporta la conoscenza del rapporto diretto tra committente (gruppo dominante), funzionario (l’intellettuale o il teorico che produce l’ideologia e il tecnico che la traduce in pratica) e la finalità d’uso, da parte del committente, dell’ideologia in quanto tale. Ma i meccanismi della delega e l’uso che il committente fa dell’ideologia scientifica, non sono espliciti e neppure tanto evidenti. Chi è oggetto della manipolazione e del controllo di una branca della scienza qual è ad esempio, la medicina, è difficile che identifichi diagnosi e cura come una forma di manipolazione e di controllo, quando non di distruzione; al massimo la ritiene una risposta insufficiente ai propri bisogni."

"In questo contesto sociale, il problema della criminalità o della malattia non può essere neppure sfiorato. Non si sa cosa sia o meglio si sa che cos’è a priori, e si applica la definizione più adatta a richiedere l’intervento repressivo per fenomeni di cui viene colto e messo a fuoco un solo aspetto: quello di comportare un disturbo sociale. Ma malattia e devianza esistono, non solo per la società che se ne difende, ma anche per i soggetti che le vivono e vogliono difendersene, o che le vivono come espressione del rifiuto di un’esistenza invivibile. Che cosa sappiamo di questi uomini, che cosa sappiamo della loro sofferenza se i parametri di conoscenza, cura, riabilitazione sono quelli che abbiamo inventato noi, tecnici borghesi, in risposta ai nostri bisogni e per tutelare la nostra sopravvivenza?"

"Questo non significa – e lo ripetiamo – che non esiste la malattia mentale e non esiste la devianza: cioè che non esiste il "diverso" come fenomeno umano e che la trasformazione dell’assetto sociale sia sufficiente a cancellarlo. Il problema sta proprio nell’incorporazione di questo concetto: la necessità di cancellare il "diverso" come se la vita non lo contenesse e quindi la necessità di eliminare tutto ciò che può incrinare la falsa acontraddittorietà di questa facciata tersa e pulita, dove tutto andrebbe bene se non ci fossero le pecore nere.
Ma mentre il "diverso" della classe dominante è accettato e vissuto come tale, cioè come un fenomeno umano che ha bisogno di risposte particolari, appunto «diverse», il "diverso" della classe oppressa non è mai accettato come tale e le risposte che si forniscono servono solo a cancellarlo e a eliminarlo, confermandolo come «disuguale». In una società divisa in classi, malattia e delinquenza della classe subalterna (quelle che incontriamo e conosciamo nelle istituzioni della violenza) diventano altra cosa da ciò che sono e l’unica risposta non può che essere la repressione, sotto mistificazioni più o meno mascherate, perché ciò che determina la natura della risposta non è la natura del bisogno, ma la classe di appartenenza di chi lo esprime."

Nel contesto sociale considerato, l’ipotesi prospettata non nasce mai come diretta risposta a bisogni individuati, ma come evoluzione di un pensiero scientifico che procede seguendo la propria logica e, insieme, la logica economica dell’area in cui agisce. Che prefigura ideologicamente la realtà cui si propone di rispondere, creando bisogni artificiali e occultando quelli reali. I servizi psichiatrici a carattere preventivo, così come si progettano e si attuano oggi, restano inseriti nella logica scientifica e nella logica economica che hanno risposto alla malattia mentale con la segregazione: la malattia è incurabile e incomprensibile; il suo sintomo principale è la pericolosità e l’oscenità; quindi l’unica risposta scientifica è il manicomio dove tutelarla e controllarla. Questo assioma coincide con l’altro in esso implicito: la norma è rappresentata dall’efficienza e dalla produttività; chi non risponde a questi requisiti, deve trovare una sua collocazione in uno spazio in cui non intralci il ritmo sociale.

Scienza e politica economica vanno di pari passo, confermando la prima i limiti di norma più confacenti e utili alla seconda. La scienza serve così a confermare una "diversità" patologica che viene strumentalizzata secondo le esigenze dell’ordine pubblico e dello sviluppo economico, assolvendo la sua funzione di controllo sociale. Conservando questi presupposti, i servizi a carattere preventivo che non portano alla trasformazione della logica dell’esclusione e della strumentalizzazione della malattia, sono la dimostrazione pratica del dilatamento del campo dell’abnorme, più che del suo restringimento in seguito alla cura. Essi di fatto non rispondono al problema della malattia e all’insieme dei processi che la alimentano, ma si limitano ad assorbire nel suo campo comportamenti, in precedenza tollerati come normali (vedi ad esempio le forme di devianza prima accettate e ora definite come abnormità malate). L’utopia-ideologia, in questo caso, non fa che trasferire a un differente livello la codificazione di "diversità", confermandone la natura «disuguale», quindi confermando la logica della separazione fra salute e malattia e la conseguente esclusione a determinati livelli sociali. Il caso invece dell’aderenza totale alla realtà corrisponde alla costruzione di strutture sanitarie tecnicamente più efficienti, che ovviamente conservano intatta la logica in cui sono inserite la malattia, la sua definizione e codificazione, nonché la natura delle misure finora adottate per rispondervi.

Con l’opera e la pratica di F. Basaglia la "critica pratica della neutralita’ della scienza", che agisce a sostegno dei valori dominanti, esce da una sfera formale e da un ambito settoriale per trasferirsi all’interno delle strutture sociali che la sostengono. Nella quali la contraddizione del binomio sapere e potere e’ sempre in anticipo risolta attraverso una relazione di potere: "la violenza esercitata da chi ha il coltello dalla parte del manico, nei confronti di chi e’ irrimediabilmente succube. Famiglia, scuola, fabbrica, universita’, ospedale sono istituzioni basate sulla netta divisione dei ruoli: la divisione del lavoro; servo e signore, maestro e scolaro, datore di lavoro e lavoratore, medico e malato, organizzatore e organizzato. Cio’ significa che quello che caratterizza le istituzioni e’ la netta divisione fra chi ha il potere e chi non ne ha. Dal che si puo’ ancora dedurre che la suddivisione dei ruoli e’ il rapporto di sopraffazione e di violenza fra potere e non potere, che si tramuta nell’esclusione da parte del potere del non potere: la violenza e l’esclusione sono alla base di ogni rapporto che si instauri nella nostra societa’. I gradi in cui questa violenza viene gestita sono, tuttavia, diversi a seconda del bisogno che chi detiene il potere ha di velarla e mascherarla."


Il pensiero di Basaglia e’ un pensiero dialettico che si rifiuta e lo fa nella pratica di aderire alla reificazione dell’uomo operata da una certa razionalita’ scientifica anche nel senso che non accetta di confermare l’uomo come un singolo nel suo isolamento e nella separazione dagli altri in quello spirito paranoide che ne distrugge l’esperienza viva e vitale. Si rifiuta di confermare una attivita’ scientifica che si esplica al di fuori di una rasponsabilita’ soggettiva, che si arrende rassegnata ai "fatali transfert" dell’economia politica nel campo della teoria, che sottomette il pensiero allo stesso trattamento che lo scambio riserva a tutte le cose, alla fungibilita’ di tutte le prestazioni e di tutti gli uomini. La critica di Basaglia alla relazione contemporanea di sapere e potere e’ integrata alla critica della legge sociale prestabilita dello sfruttamento. E’ basata sulla convinzione che le "crisi" individuali non si possono spiegare in maniera unilateralmente individualistica senza comprendere le tendenze sociali che, sia pure in modo ipermediato, s’impongono proprio attraverso i soggetti e non solo contro di essi. In una societa’ la  cui essenza e’ basata sulla "competizione selvaggia"  fra gli individui ed il "successo economico" rappresenta la meta piu’ alta a cui essi possono aspirare le persone non conoscono piu’ nulla al di fuori del loro nudo e volubile interesse e sono permanentemente paralizzate nel loro rapporto con gli altri.

L’impotenza del singolo a prevedere il suo destino economico, la precarieta’ diffusa, oggi accentuano questa degenerazione fino ad investire il pensiero sempre piu’ modellandolo secondo la sua traducibilita’ in valore di scambio, adeguandoloo aprioristicamente secondo lo schema del compito, dell’efficienza, dell’esecuzione coerentemente indirizzata al mercato e che respinge da se’ come perturbazione ogni momento di riflessivita’, di autonomia, di responsabilita’ morale. Oggi il contenuto stesso dell’interiorita’ diventa una semplice funzione del processo produttivo, un oggetto di manipolazione, che puo’ essere maneggiato, esposto, venduto. Gli individui passano in rassegna i propri contenuti emozionali per metterli a disposizione del mercato. Essi riflettono il processo sociale nella loro intima struttura fino a diventare loro stessi gli agenti di una deformazione economica che oggettiva gli impulsi, le capacita’ intellettuali, come forme o varieta’ del rapporto di scambio. Il ricatto economico della sopravvivenza compenetra i soggetti fino a trasfrormare l’istinto di autoconservazione in una negazione della vita sotto l’apriori della smerciabilita’. Il principio di autoconservazione, centro di ogni campo di gravita’ sociale, inteso come sovranita’ assoluta del soggetto, che subordina a se’ le cose, gli altri uomini e se stesso, si capovolge fatalmente nella perdita della soggettivita’, nell’estraniazione totale, nella decomposizione dell’esperienza in oggetti reificati in cui viene meno la capacita’ di avvertire l’altro come tale.


liberamente e principalmente da
-"la maggioranza deviante"
-"conferenze brasiliane"
-"crimini di pace"
-"l’istituzione negata"
di F. Basaglia e F.Basaglia Ongaro

foto tratte dall’archivio fotografico del DSM di Trieste

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